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Che fine ha fatto Aldo Firicano?

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Viaggiamo nel meridione d'Italia, tradizionalmente fucina di talenti bruciati come il sole dei suoi riarsi campi di paese.

Il giocatore di cui si parla oggi è sicuramente ricordato dai più esperti, dato che legò il proprio nome all'epica Fiorentina di fine anni '90. A Firenze giocavano campioni come Rui Costa e Batigol e sulla maglia viola erano presenti sponsor squisitamente old-school come Sammontana e Nintendo. Oltre alla Fiorentina, il giocatore fu protagonista anche in un Cagliari esplosivo, paragonabile certo a quello dell'era Suazo-Zola-Esposito.

 

Il suo nome è Aldo Firicano. Siciliano di Erice, si fa strada sgomitando tra Cava de' Tirreni, Nocera Inferiore-Superiore ed Udine, la sua vera esplosione è nel Cagliari della Coppa UEFA (stagione '92-'93), e da difensore vecchia maniera riesce comunque a mettere a segno varie reti; suo compagno quella stagione è Allegri.

Dopo ben sette stagioni con gli isolani si accasa alla barocca Fiorentina di mister Ranieri, dove vive una stagione da protagonista, trovando anche la Supercoppa, per poi progressivamente calare e lasciare spazio a compagni più titolati, tra cui il brianzolo Torricelli.

 

Si ritira a 37 anni, ultime sue squadre la Salernitana della B, poi Arezzo in C1 e Itala San Marco e Sestese (Sesto Fiorentino) in D. Il nostro vive però una seconda giovinezza da allenatore. Patentato a Coverciano, prima esperienza proprio nella Sestese con cui concluse la carriera, approda poi a Biella nel più classico degli avvicendamenti del calcio minore, il cambio mister per centrare la salvezza.

Ci riesce, potendo contare sulle prodezze di Bomber Zirafa, nome certo non nuovo agli amici di fede Biancorossa (dove però più che bomber fu giacca a vento). In seguito è un peregrinare per lo più nella Toscana che lo ha adottato. Esperienze da ricordare a Carrara, dove forse per la grande pressione ed i risultati deludenti viene esonerato poco dopo il giro di boa, e Buggiano, società sportiva da almanacco storico, fondata nel '20, scioltasi e ripartita dalla Terza l'anno scorso.

 

Che cosa fa ora Aldo Firicano?

Nel 2014 ha allenato a Pergolettese, ex Pergocrema, dove ha avuto il piacere di incontrare un grande fantasista con esperienza di Serie A e Serie B: il magico Jeda. La stagione si è purtroppo conclusa con la retrocessione in D.

Nel 2015, altra sfortunata parentesi a Forlì, culminata con una nuova retrocessione in Serie D, poi a febbraio 2017 (dopo un 2016 senza ingaggi) ritorno in panchina alla Carrarese (Lega Pro, Girone A), dove ha eredeitato una situazione di classifica tutt'altro che rosea.

 

Lo vogliamo ricordare così: il suo gol nel 3-0 dei Viola contro la Juventus, quarti di finale UEFA '93-'94 (il nostro ne è sicuro, in una recente intervista conferma: "Tutti si ricordano quella mia rete"),

 

Autore: Riccardo Vincelli


Che fine ha fatto Vampeta?

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Ad inizio anni 2000 il Brasile sfornava talenti del calibro di Roberto Carlos, Cafu, Rivaldo, Ronaldinho e Ronaldo ed a centrocampo Edmilson e Gilberto Silva creavano una diga forte fisicamente e tecnicamente. I giocatori appena citati sarebbero diventati nell'estate del 2002 Campioni del Mondo, nel mondiale di Corea del Sud e Giappone, terminato male e anzitempo per quanto riguarda la nazionale italiana.

Nella squadra campione c'era spazio anche per altri giocatori, meno talentuosi, ma di sicura utilità in un team disegnato per sostenere un gioco d'attacco.

Uno di essi rispondeva al nome di Marcos André Batista Santos, conosciuto come "Vampeta" ai più.

Che cosa significa "Vampeta"?

Vampeta è una "parola macedonia" (ovvero l'unione di due parole opportunamente abbreviate per formarne un'altra che le evocasse entrambe) dei termini portoghesi vampiro (vampiro) e capeta (demone).

 

Gli esordi

Nato nel 1974, di ruolo volante (centrocampista difensivo), a 20 anni è già un giocatore del PSV Eindhoven, club conquistato in seguito a una decina di partite con la maglia del Vitoria di Salvador de Bahia.

La dirigenza del PSV crede nelle qualità del calciatore e a gennaio 1995 lo presta al VVV-Venlo, squadra della Eredivisie dove il giovane brasiliano riesce a giocare con maggiore continuità (7 partite e 3 gol). Tuttavia, la nostalgia del Brasile indurrà il PSV a cedere il giocatore al Fluminense per un anno in prestito, per consentirgli di giocare vicino casa.

A giugno 1996 il PSV riabbraccia il giovane centrocampista, che disputerà due stagioni in maglia biancorossa, prima di passare a titolo definitivo al Corinthians di San Paolo. In questa squadra Vampeta riuscirà a consacrarsi come uno dei migliori volante del campionato brasiliano, realizzando persino parecchie reti.

Nel 1998 debutta con la nazionale brasiliana e nel 1999 è tra i giocatori che vincono la Copa America. Inoltre, prende parte alla spedizione della nazionale brasiliana alla Confederation's Cup di quello stesso anno. 

 

Inter: la grande occasione

I successi in nazionale brasiliana e l'amicizia con Ronaldo inducono la dirigenza dell'Inter a formulare un'offerta di 30 miliardi di lire (15 milioni di Euro) per accaparrarsi il giovane brasiliano.

Il suo esordio coincide con l'ultima partita di Marcello Lippi sulla panchina nerazzurra (Reggina 2-1 Inter) e l'approdo di Marco Tardelli - ex calciatore a cui Vampeta era stato paragonato per caratteristiche tecniche - sulla panchina dell'Inter provoca la sua esclusione dalla rosa della formazione meneghina.

 

Paris Saint Germain: terzo capitolo europeo

A gennaio 2001, Vampeta non è non più necessario all'Inter, che lo scambia con il Paris Saint Germain con l'esterno Stéphane Dalmat, anch'egli meteora a Milano. A Parigi giocherà meno e peggio rispetto che nell'Inter e a giugno 2001 il brasiliano sarà impacchettato di fretta e furia e venduto al Flamengo, senza più fare ritorno in Europa.

 

Un giocatore vincente

In Brasile, Vampeta ha una buona reputazione, parzialmente macchiata da un servizio fotografico osé a cui il calciatore si era sottoposto nel 1999, anno in cui vinceva il suo secondo campionato con la maglia del Corinthians. Altri successi con quella maglia sono due campionati paulisti (1999 e 2003), la coppa brasiliana (2002) e il campionato del mondo per club (2000).

 

Il 2002 è l'anno della vittoria del Campionato del Mondo con la maglia del Brasile e quella vittoria segnerà il punto più alto della carriera di Vampeta, nonostante avesse disputato solo gli ultimi 18 minuti della partita di esordio contro la Turchia. Nei club la fortuna non lo accompagna, anzi tra il 2004 e il 2008 saranno ben 6 le squadre che lo avranno nella loro rosa: Vitoria Bahia, Al Salmiya Club (Kuwait), Brasiliense, Goias, Corinthians e Clube Atlético Juventus.

Il ritiro è datato 2008, ma nel 2011 il Gremio Esportivo Osasco (Serie A3 del Campionato Paulista) gli offre un ingaggio come calciatore-allenatore (pare per soli 450 Euro mensili!).

 

Che cosa fa ora Vampeta?

Dopo aver tentato nel 2010 la carriera come commentatore televisivo della nazionale braisliana al Mondiale sudafricano ed aver concorso alle elezioni politiche come deputato federale (senza essere eletto), Vampeta ha poi proseguito la carriera di commentatore - radiofonico - nel 2015 per Radio Jovem Pan. Il sodalizio con il Gremio Osasco è proseguito negli anni, anche in seguito all'acquisizione dell'Audax e Vampeta ha ricoperto i ruoli di allenatore e persino di presidente.

 

Autore: Gianmaria Borgonovo

Che fine ha fatto Mauro Germán Camoranesi?

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"La forza mentale distingue i campioni dai quasi campioni" (Rafael Nadal, tennista spagnolo)

 

Tra la fine degli anni 90' e l'inizio degli anni 2000 il calcio italiano ha accumulato finali e vittorie in Champions League e Coppa Uefa con club di grande tradizione come Inter e Juventus e con una provinciale indimenticabile come il Parma.

Negli stessi anni i calciatori diventavano sempre più uomini copertina per bellezza e fama, fornendo persino validi motivi alle donne per seguire il calcio, fino a quel tempo di limitato interesse per il mondo femminile.

Quegli anni videro la crescita della realtà provinciale di Verona, che nel 2002 ebbe per la prima volta due squadre contemporaneamente nella massima divisione: il ChievoVerona di Nicola Legrottaglie e l'Hellas Verona di Mauro German Camoranesi, di cui tratta il presente articolo.

L'esordio giovanile

Mauro Germán Camoranesi Serra - argentino di Tandil - è uno dei giocatori che durante gli anni 2000 ha maggiormente caratterizzato le vicende della Juventus. Classe 1976, esordisce nella squadra della sua città, il Gimnasia y Esgrima Tandil, prima di essere ceduto all'età di soli 18 anni al Club Atletico Aldosivi di Mar de la Plata.

 

Fin dalla giovane età Mauro dimostra di avere un temperamento esuberante, tanto che durante il derby giovanile di Mar de la Plata tra Aldosivi e Club Atletico Alvarado fece un intervento assassino sull'avversario Roberto Pizzo, che costò a quest'ultimo la rottura dei legamenti e una lunga riabilitazione, mentre a Camoranesi un risarcimento a Pizzo di 50 mila dollari (comminatogli alcuni anni dopo).

Benché la sua carriera professionistica non fosse ancora iniziata, questo gesto può considerarsi il suo esordio nelle cronache di interventi irregolari di campo.

 

Messico, Uruguay e Argentina

Il fallaccio non passò inosservato ed anzi costò a Mauro la reputazione in Argentina. Nel 1995 l'allora diciannovenne esterno offensivo (che in Argentina non era insolito vestire la maglia numero 10) emigrò al Santos Laguna nella messicana comarca Lagunera, laddove esordì da professionista.

Dopo una prima stagione con una quindicina di presenze ed un solo gol, Mauro si trasferì in Uruguay al Montevideo Wanderers, dove disputò sei presenze in pochi mesi prima di un episodio violento nei confronti di un arbitro, a cui Camoranesi rifilò un pestone. Gli costò 10 giornate di stop.

 

A luglio 1997 il Banfield - squadra dove era transitato 3 anni prima Javier Zanetti - gli dà l'opportunità di esordire con 38 presenze e 16 gol nella Primera B Nacional Argentina, per una stagione fantastica, a cui seguì una nuova cessione a titolo definitivo al Cruz Azul di Città del Messico.

In Messico, tra il 1998 e i primi sei mesi del 2000, disputò due stagioni ad alto livello, segnando parecchio (21 gol in 75 giornate) e le sue ottime giocate lo inserirono nella lista della spesa di alcune squadre europee.

Hellas Verona: esordio in Serie A

Tra tutte le squadre interessate, la spuntò l'Hellas Verona, che sborsò per Camoranesi una cifra vicina ai 7 milioni di euro tra l'estate del 2000 e quella del 2002.

A Verona Mauro disputa due ottimi campionati di Serie A, conditi da 7 gol e dalla retrocessione in Serie B al termine della stagione 2001-2002.

 

Juventus: la grande avventura

In Serie A la duttilità tattica di Mauro non passa inosservata e a luglio 2002 la Juventus lo ingaggia in comproprietà dal Verona. Chiamato a sostituire l'infortunato Gianluca Zambrotta ed accolto dai tifosi juventini con curiosità, Camoranesi conquista la nazionale italiana già nel febbraio del 2003, dopo la mancata convocazione di Marcelo Bielsa, allenatore dell'Argentina.

Uno juventino nato in Sud America tornava in Nazionale, segnando il ritorno degli oriundi nella nazionale azzurra, dopo alcuni decenni e risultando decisivo nella vittoria del mondiale 2006 in Germania.

 

La prima stagione (2002-2003) alla Juventus si concluse con la vittoria dello scudetto e il raggiungimento della finale di Champions League, persa contro il Milan, dove Camoranesi giocò male come trequartista, in sostituzione dello squalificato Nedved.

 

L'apice della carriera

Dal 2003 al 2006 la carriera di Mauro continua brillantemente e complici il trasferimento di Marcello Lippi in nazionale e l'approdo di Fabio Capello alla Juventus, la sua crescita è notevole, tanto da essere considerato uno dei migliori giocatori della Serie A.

A maggio del 2006 scoppia Calciopoli, lo scandalo più noto nel calcio italiano degli ultimi anni, proprio quando mancavano poche settimane alla nazionale italiana per disputare il campionato del mondo di calcio di Germania 2006. Camoranesi è sia juventino, che nazionale italiano e a distanza di anni il suo commento su quelle vicende è a dir poco polemico.

 

All'inizio dell'estate 2006, la tensione in Italia è molto alta, le polemiche sul calcio riempiono i giornali ma appena iniziato il Mondiale il popolo italiano si trova unito a tifare la propria Nazionale, che vinse quell'edizione.

 

La risalita

L'euforia seguita alla vittoria del Mondiale si esaurì subito per giocatori e tifosi della Juventus, retrocessa nella Serie B 2006-2007 con pesante penalizzazione.

Calciatori del calibro di Emerson, Patrick Vieira, Fabio Cannavaro, Lilian Thuram, Gianluca Zambrotta, Zlatan Ibrahimovic e Adrian Mutu decisero di non seguire la squadra bianconera in Serie B. Tuttavia, 5 senatori decisero di rimanere a Torino in Serie B e contribuirono all'immediata risalita della Juventus in Serie A: Gianluigi Buffon, capitan Alessandro Del Piero, David Trezeguet, Pavel Nedved e l'oriundo Mauro German Camoranesi.

 

Nel 2007-2008 la Juventus era già tornata nella massima serie e l'innesto di giocatori esperti come Zdenek Grygera, Hasan Salihamidzic e Vincenzo Iaquinta consente ai bianconeri di terminare la stagione al terzo posto in Serie A, con ritorno in Champions League.

Nel 2008-2009 la Juventus migliorò, concludendo seconda in campionato, alle spalle dell'Inter che da lì a 12 mesi avrebbe vinto il triplete. Tuttavia dal 2007 al 2009 le stagioni di Camoranesi sono costellate da infortuni più o meno gravi che gli impediscono di giocare con regolarità. Ciò si confermò nel 2009-2010 (sua ultima stagione in bianconero), allorché Mauro giocò soltanto poco più della metà delle partite di campionato, prima della cessione in Germania.

 

 

Camoranesi allo Stoccarda. Foto tratta da www.stuttgarter-nachrichten.de
Camoranesi allo Stoccarda. Foto tratta da www.stuttgarter-nachrichten.de

Germania e Argentina

Il 31 agosto 2010 Mauro Camoranesi diventa un giocatore dello Stoccarda, squadra di alto livello in Bundesliga e qualificata all'Europa League, ma lontana dal livello della Juventus di Capello. In Germania, le grandi aspettative del calciatore non si traducono in partite degne del suo blasone e il 26 gennaio 2011 l'oriundo decide di tornare in Argentina, al Lanus.

 

In Primera Division Argentina i ritmi sono più blandi rispetto ai campionati europei, ma l'agonismo è eccessivo ed ai limiti della rissa nella maggior parte delle partite. Il 27 ottobre 2011, durante il match del Torneo Inicial argentino tra Racing Club Avallaneda (allenato da Simeone) e il suo Lanus, Camoranesi esegue questa sequenza di scorrettezze ai danni di Patricio Toranzo e Diego Simeone:

  • Prima un duro intervento di gioco.
  • Poi una testata a Toranzo davanti all'arbitro.
  • Dopo essere stato espulso, un calcio in testa a Toranzo.
  • Appena dopo essere stato accompagnato fuori dal campo dall'arbitro - come un ubriaco fuori da una discoteca con vicino il buttafuori - trova il tempo per insultare l'allenatore avversario Diego Pablo Simeone, che gli intima di tornare in Europa.

A parte questo episodio e una rissa durante un'amichevole, la sua esperienza al Lanus è anonima e caratterizzata da un solo gol.

 

Il 21 luglio 2012, a quasi 36 anni Mauro si trasferisce al Racing Club Avallaneda, squadra reduce da ottimi piazzamenti in campionato, ma in grossa difficoltà nel Torneo di Clausura del 2012, chiuso in diciassettesima posizione. In questo contesto Camoranesi disapprova le scelte dell'allenatore Reinaldo "Mostaza" Merlo, reo di avergli concesso un minutaggio decisamente troppo basso nelle competizioni di quell'anno,l.

L'ultimo match di Mauro è datato 16 marzo 2014 a Rosario, laddove subentrò al futuro calciatore dell'Udinese Rodrigo De Paul al sessantottesimo minuto della partita contro il Newell's Old Boys.

 

     

Camoranesi allenatore del Tigre. Foto tratta dall'account twitter @catigreoficial
Camoranesi allenatore del Tigre. Foto tratta dall'account twitter @catigreoficial

Che fine ha fatto Mauro Germán Camoranesi?

Il 2014 è anno di grandi cambiamenti per Mauro, che abbandona la carriera da calciatore ed intraprende quella da allenatore.

Il 15 dicembre 2014 diventa allenatore del Coras Fútbol Club de Tepic nella seconda serie messicana (la Liga Ascenso MX), ma il sodalizio dura pochi mesi. Il 19 agosto del 2015, Camoranesi si dimette a mezzora dall'inizio del match contro il Chivas Guadalajara, dimostrando di non aver ancora risolto alcuni problemi comportamentali.

 

Il 21 dicembre 2015, il Tigre lo ingaggia in qualità di allenatore con contratto fino giugno 2017. L'avventura con il club di Primera division della provincia di Buenos Aires dura fino a marzo 2016, quando la dirigenza della squadra porteña decide di revocargli l'incarico dopo 7 match con soli 5 punti in campionato.

 

Dopo due esperienze come allenatore molto negative, Camoranesi viene ingaggiato il 30 agosto del 2016 dalla squadra della Liga Ascenso MX messicana del Cafetaleros de Tapachula, ma anche in questa occasione l'avventura dura pochi mesi. Il 22 gennaio 2017 la dirigenza della squadra lo destituisce dall'incarico, visti i risultati alquanto deludenti.


Da calciatore, Camoranesi è esploso dopo anni di gavetta lontano da casa, poi con la Juventus e la Nazionale ha scritto pagine memorabili del calcio italiano. La sua carriera da allenatore sarà simile a quella da calciatore?


Autore: Gianmaria Borgonovo

In Lega Pro "Non c'è partita senza avversario"

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Gli appassionati della Lega Pro avranno sicuramente notato una curiosità che da un paio di giornate a questa parte è protagonista dei campi del terzo livello professionistico italiano. Infatti, i capitani delle squadre scendono in campo indossando la maglia dell’avversario di giornata, per poi scambiarsele insieme ai gagliardetti.

Si tratta di una campagna voluta fortemente dal presidente dall’Assocalciatori Damiano Tommasi, in seguito alla spirale di violenza che ha visto coinvolte, in ordine cronologico, le piazze di Ancona, Catanzaro, Matera e Taranto con i tifosi che hanno aggredito i calciatori della propria squadra. L’iniziativa “Non c’è partita senza avversario” avrà luogo su ogni campo della Lega Pro fino al termine del campionato e vuole essere anche un’assunzione di responsabilità da parte dei calciatori, con l’obiettivo di placare questo moto di violenza decisamente preoccupante.

Come affermato dal Presidente di Lega Gravina, la campagna punta a “ribadire che il nostro calcio vuole portare in campo e sugli spalti fair play e confronto”.

Lo scambio delle maglie da gioco a inizio partita da parte dei capitani è un gesto semplice, simbolico ed evocativo, ma sicuramente non risolutivo del problema violenza nel calcio, soprattutto nel sud Italia dove viene vissuto in modo viscerale e i campanilismi sono portati all’esasperazione. 

Qualcosa comunque era giusto andasse fatto, sia per prendere le distanze da certi atteggiamenti riottosi, ormai diventati quasi una consuetudine, sia per dare un ritocco all’immagine della Lega Pro, offuscata da troppe ombre, dalle “caselle” vuote al momento della stesura dei calendari per le mancate iscrizioni al calcioscommesse.

Un’iniziativa simile era stata adottata anche nel 1995 in seguito alla tragica morte del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo, accoltellato durante uno scontro con gli ultras rossoneri del Milan fuori dallo stadio Ferraris. In quell’occasione, a sorpresa, tutte le squadre di Serie A e B scesero in campo a maglie invertite.

Si dice che la storia è ciclica, speriamo però non servano altri spunti come questi per far tornare il sereno nel mondo del calcio.

 

Autore: Andrea Longoni

Che fine ha fatto Freddy Adu?

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Ad inizio anni 2000 la MLS era un campionato di nicchia, per non dire di basso livello, visti i pochi campioni ed il ridotto numero di giovani prospetti. Tuttavia nel 2004 un giovane, giovanissimo calciatore sembrava poter impartire lezioni di football ad una nazione che il football lo conosceva, ma intendeva un altro sport.

 

In un contesto caratterizzato da pochi talenti e tanti giocatori anziani, un giovanissimo e rilucente calciatore aveva tutte le carte in regola per mettersi in mostra. E il soccer americano dimostrava di averne proprio bisogno.

Chi è Freddy Adu?

Calciatore statunitense di origini ghanesi, è stato il più giovane esordiente della Major League Soccer, a 14 anni e 10 mesi, e due settimane dopo l’esordio ne è diventato il goleador più precoce. Non bastasse, anche in nazionale la palma di debuttante più giovane, appena sedicenne, è sua: è la storia dello statunitense Freddy Adu, passato agli onori delle cronache nel 2004 quando, adolescente, è riuscito ad attirare l’attenzione del mondo del calcio quale potenziale fenomeno del futuro tanto che qualcuno, in preda all'entusiasmo e ad un marchiano errore di prospettiva, ne parlò anche come del nuovo Pelé.

 

Benfica e gli inizi in Europa

Così, mentre Chelsea e Manchester United riflettevano sul suo acquisto, il Benfica nel 2007 decise di sborsare oltre due milioni di dollari per accaparrarselo, quando il ragazzo di origini ghanesi aveva solo 18 anni; esordì anche in Champions League. Non giocava tanto, ma era giovane e alla fine la buttò dentro 5 volte in 18 apparizioni, tra Super Liga e Coppa.

Lo staff tecnico dei lusitani rimase piacevolmente impressionato dalle sue capacità, ma era visibilmente acerbo cosicché fu mandato in prestito a farsi le ossa. Non in una squadra qualsiasi, ma al Monaco: non trovò spazio, non fece neanche un gol, era già tempo di tornare al Benfica. Effettuò la preparazione estiva, poi via all'Os Belenenses, massima serie portoghese.

Un infortunio, poca roba, e dopo 6 mesi gli diedero il benservito. Si inserisce allora l’Aris Salonicco, prestito per 18 mesi; dopo aver segnato già alla terza partita, passa appena una mezza dozzina di mesi e viene messo fuori rosa.

 

La fine dell'esperienza portoghese

Poi rescinde col Benfica e allora sono guai. Si ritrova svincolato e si propone a qualche squadra, alla stregua di un dilettante qualunque di terza categoria con velleità di seconda. Già, ma quale?

Prova col Sion, ma non convince il club svizzero. Quindi col Randers, massima serie danese, nuova bocciatura. Si parla di un ritorno in patria, Los Angeles Galaxy, ma non se ne fa nulla. A gennaio 2011 è il turno dell'Ingolstadt, club della Zweite Liga tedesca, ma, infine, viene ufficialmente ceduto in prestito in Turchia al Çaykur Rizespor fino al termine della stagione.

 

Ritorno negli Stati Uniti: Philadelphia Union

Il Philadephia Union prova a riportare in vita un talento finito nel dimenticatoio; in due anni la sua media-gol si alza ma non trova abbastanza spazio. In tempi recenti subisce un nuovo prestito, stavolta in Brasile al Bahia. Due presenze nel massimo campionato 2013, scadenza del suo contratto con gli Union e il Bahia non prende neanche in considerazione l’idea di riscattarlo.

 

Freddy Adu alla ricerca di un ingaggio in Europa

Inizia un altro periodo in giro per l'Europa alla Campioni - Il Sogno, senza squadra e con tanta voglia di far ricredere i propri detrattori. A febbraio 2014, lo si avvista tenere un provino con la formazione inglese del Blackpool, senza che gli venisse offerto alcun contratto.

Il giugno successivo si è allenato con i norvegesi dello Stabæk, nell'ottica di un possibile trasferimento nella squadra guidata da Bob Bradley, ex commissario tecnico degli Stati Uniti.

Nel luglio del 2014 ha svolto una settimana di prova in Olanda con l'AZ Alkmaar, ma senza alcun esito.

 

Jagodina e Kuopion Palloseura, nuove chance europee

Il 25 luglio 2014 Adu firma un contratto fino a fine stagione con i serbi del FK Jagodina, squadra militante nella Superliga serba, in cui totalizzerà una sola presenza da subentrato in coppa di Serbia. Un fallimento.

A marzo 2015 Adu trova un nuovo ingaggio quadrimestrale in Finlandia, nel Kuopion Palloseura (KuPS), dove totalizzerà 6 presenze, senza lasciare mai il segno.

 

Il ritorno negli Stati Uniti

Allo scadere del contratto, la formazione statunitense dei Tampa Bay Rowdies (militante nella seconda serie statunitense) gli offre un contratto di un anno e mezzo, che si conclude in data 1 gennaio 2017.

Da quel momento Freddy Adu è svincolato, nemmeno ventottenne: curioso destino, per il ragazzo che voleva essere Pelé. Dalla gloria e ritorno.

 

Autore: Andrea Longoni 

C'era una volta il calcio Made in Sud

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Quella che si avvia alla conclusione potrebbe essere la stagione del definitivo tramonto del calcio meridionale in Serie A. 

A Crotone, la prima storica apparizione in massima serie è stata caratterizzata da molte ombre e poche luci, l’ultima delle quali è stata la meritata vittoria allo Scida contro l’Inter che ha rilanciato i Pitagorici nella corsa salvezza. Slancio puntualmente castrato dalle due vittorie consecutive che hanno consegnato all’Empoli, fin qui avido di gol, gli scalpi “eccellenti” di Fiorentina e Milan e che hanno permesso ai toscani di ergersi ulteriormente oltre la linea di galleggiamento. A Palermo, invece, la disorganizzazione a livello dirigenziale è proporzionale alla povertà di gioco e risultati sul campo. Il passaggio di testimone tra Maurizio Zamparini e Paul Baccaglini è solo l’ultimo di una serie di avvenimenti in questa stagione tormentata. Solo il tempo e la possibilità di fare “tabula rasa” che comporta la ormai quasi certa retrocessione ci diranno della bontà dei propositi della nuova dirigenza.

A meno di clamorose sorprese dai play off di Serie B e alla luce di quanto sopra, la prossima stagione potrebbe essere l’Anno Uno del calcio del Mezzogiorno. Uno come la sola squadra rappresentante il Sud Italia in Serie A, il Napoli, tanto grande quanto solo, e l’unica a predicare in un deserto contraddistinto da mancanza di progettualità, poca lungimiranza, nessun investimento e una tendenza all’avventurismo da parte degli addetti ai lavori da far accapponare la pelle. Tutti questi fattori hanno ampliato la forbice tra il calcio del Nord e il calcio del Sud. Uno sport che, a seconda della latitudine dello Stivale, va a due velocità.

Una diretta conseguenza è che, ormai, i veraci e gagliardi derby del Sud sono relegati, nella migliore delle ipotesi, nelle categorie semiprofessionistiche e vivono di sfarzi passati e di sole rivalità campanilistiche tra tifoserie, mentre alcune piazze sono addirittura sparite dai radar a causa di fallimenti e conseguenti ridimensionamenti.

Di seguito, ripercorriamo l’apice raggiunto nel recente passato da sei società meridionali in Serie A.

Bari – stagione 1999/2000

Il Bari è una squadra da sempre abituata al palcoscenico della Serie A. Ha militato, infatti, per 30 stagioni nella massima serie, risultando cosi la prima società pugliese e la terza del Mezzogiorno, dopo Napoli e Cagliari, per numero di partecipazioni. I sostenitori biancorossi sono tra i più caldi e affezionati d’Italia e, numeri alla mano, sono la seconda tifoseria del Meridione, sempre dopo Napoli. Nonostante questo la Serie A manca a Bari dalla stagione 2011/2012. Il momento più iconico del recente passato dei Galletti, più che il biennio di Ventura che ha portato il Bari agli onori della cronaca del calcio italiano per il suo gioco arioso e propositivo, è la “nascita calcistica” di Antonio Cassano. Quella stagione, Eugenio Fascetti, tuttora l’allenatore che ha seduto più volte sulla panchina del Bari, ma che arrivò tra lo scetticismo iniziale per i suoi trascorsi leccesi, aveva una rosa composita: due futuri campioni del mondo come Gianluca Zambrotta e Simone Perrotta; in difesa c’erano Gaetano De Rosa e capitan Luigi Garzya; nomi diventati un culto come Phil Masinga, Rachid Neqrouz e Hugo Enyinnaya; in porta il compianto Francesco Mancini e in attacco le bocche di fuoco Gionatha Spinesi e Yksel Osmanovski.

Una stagione senza infamia e senza lode, con una 14^ piazza che ha evitato la retrocessione per 3 punti. Se non fosse per quel 18 dicembre 1999 quando nell’Astronave San Nicola, impianto da 60mila posti che nulla c’entra con le categorie minori, Fascetti decide contro l’Inter di far esordire in casa i due ragazzini: Hugo Enyinnaya e Antonio Cassano, diciassettenne di Bari Vecchia. Il resto è storia nota. Un gol capolavoro a testa ma destini differenti, con il nigeriano che raggiunse quella sera l’apice della sua effimera carriera ad alti livelli, e Cassano che giocò a Bari un altro anno e mezzo, prima di passare alla Roma per 60 miliardi di lire. Poi Real Madrid, Sampdoria, le due milanesi, Parma, ancora Samp e tante, troppe “cassanate” che l’hanno portato ora ad essere senza squadra. Oggi la realtà è una nuova stagione in salita in cadetteria, con Colantuono che sostituisce l’esonerato Stellone, e il tridente Galano-Maniero-Floro Flores con nel mezzo il grave infortunio del “Messi di Cantù” Franco Brienza.

Reggina - stagione 1999/00

Come a Crotone quest’anno, la stagione 1999/2000 era quella di esordio di un’altra squadra calabrese, la Reggina. Dopo aver strappato l’ultimo pass per la Serie A, gli amaranto, guidati da Franco Colomba, si presentano ai nastri di partenza come la classica Cenerentola del torneo: mix di vecchi artefici della promozione e giovani ricevuti in prestito dalle grandi per poter rodare i propri tesserati, e molta sfacciataggine. Inutile dire che il pubblico che accorreva al Granillo era da record, con 24mila abbonamenti sottoscritti, di cui 11mila quando i giochi per la promozione in Serie A erano ancora aperti. Praticamente il sold out era garantito in ogni partita casalinga. In porta c’era Paolo Orlandoni, poi sostituito da Massimo Taibi al rientro in Italia dopo un’infelice parentesi al Manchester United; in difesa Bruno Cirillo, Giovanni Morabito, Lorenzo Stovini e Joseph Dayo Oshadogan, il primo giocatore di colore ad indossare la maglia della Nazionale U21 guidata da Cesare Maldini; a centrocampo c’erano Giandomenico Mesto, l’eterna promessa Roberto Baronio, un altro bresciano come Andrea Pirlo, in prestito dall’Inter e, soprattutto, Francesco Cozza, fantasista e prodotto del vivaio amaranto, al rientro dopo una girandola di prestiti; in attacco Davide Possanzini, Erjon Bogdani e Mohamed Kallon. Il 29 agosto l’esordio fu al Delle Alpi con la Juventus di Del Piero e Zidane. Finì 1-1 con il primo gol in Serie A nella storia della Reggina siglato dal sierraleonese Momo Kallon che ha pareggiato la giocata di Inzaghi. Dopo aver fermato la Juventus, la squadra impose il pareggio anche a Fiorentina, Parma, Lazio ed Inter. A San Siro con il Milan finì 2 a 2, grazie a un rigore parato da Belardi a Shevchenko, mentre la Roma capitolò sotto i gol di Cozza e Cirillo. La salvezza arrivò senza affanno: all’ultima di campionato all’Olimpico la squadra poté assistere senza patemi al 3-0 che, complice il naufragio juventino di Perugia, regalava lo scudetto alla Lazio.

La Reggina collezionerà altre sette stagioni in A. Una in particolare merita un capitolo a parte, ed è quella che seguì Calciopoli con gli amaranto che riuscirono in un’impresa incredibile, rimontando 11 punti di penalizzazione e conquistando una salvezza insperata. Altri giocatori di spessore che passarono per l’Oreste Granillo furono Emiliano Bonazzoli, David Di Michele, il brasiliano Mozart, il “Pianista dello Stretto”, il giapponese Shunsuke Nakamura, talento intermittente ma una sentenza sui calci piazzati, la coppia gol formata da Nicola “Piede Caldo” Amoruso e Rolando Bianchi.

Oggi purtroppo la squadra di Lillo Foti, dopo aver conosciuto l’onta del fallimento e i pantani della Serie D, sta vivendo un’altra stagione tribolata in Lega Pro, lottando per evitare la retrocessione, e dei 24mila abbonati della stagione d’esordio oggi ne rimangono neanche un decimo sugli spalti.

Lecce - stagione 2003/04

Citando Checco Zalone in “Cado dalle nubi” nella scena in cui è a cena a casa della famiglia Mantegazza: “la Puglia è lunga ed è tutta bella”. E non possiamo che dargli ragione. Soprattutto per la zona più meridionale, il Salento, distante ore di auto anche per gli stessi pugliesi; motivo che ha rafforzato il loro senso di autonomia, celebrato da uno striscione sugli spalti dello stadio che recitava “Salento is not Puglia!”. L’impianto di gioco non poteva che essere il Via del Mare di Lecce. A tutto ciò aggiungiamo l’esplosione nella stagione 2003/2004 degli interpreti giallorossi dell’epoca che consacrò il Lecce come brand di culto.  

Nell’estate del 2003 il Lecce si ripresentò in Serie A con una rosa praticamente identica a quella che arrivò terza nella stagione precedente in cadetteria. In porta Vincenzo Sicignano sostituisce Marco Amelia, girato in prestito dal Livorno al Parma nel mercato di riparazione; in difesa c’erano Cesare Bovo e Lorenzo Stovini, pronti ad allargare sulle fasce arate da Marco Cassetti e Max Tonetto; in mezzo al campo, un 26enne Guillermo Giacomazzi dava già segnali di un’intelligenza tattica superiore, affiancato dall’argentino Christian Ledesma, pescato da Pantaleo Corvino dalle giovanili del Boca Juniors; ma era davanti che la squadra diveniva fenomeno pop, grazie al tridente Vucinic-Bojinov-Chevanton. Direttore d’orchestra era Delio Rossi, confermato in panchina. 

Il ventenne Vucinic mise presto in mostra un mix di doti atletiche e lucida follia, non tuttavia supportate da una continuità di rendimento degna di nota. Il bulgaro Bojinov aveva una potenza di calcio quasi incompatibile con il suo baricentro e a 16 anni fu il più giovane straniero a saggiare la massima serie, mentre nel gennaio 2004, non ancora maggiorenne, andò in gol contro il Bologna. Infine, c’era Ernesto Javier Chevantón, che quell’anno realizzò 19 gol. Quella del Lecce per l’uruguaiano divenne subito una seconda pelle e il suo attaccamento alla maglia lo portò, assieme al connazionale Giacomazzi, a giocare e segnare in giallorosso in tre categorie. Oltre che a sottoscrivere un abbonamento in curva, tra i suoi tifosi, una volta smesso di giocare. 

Fu un campionato a due facce: un girone di andata disastroso con soli 12 punti conquistati, mentre da gennaio, soprattutto grazie agli innesti di Jorge Eladio Bolaño e Daniele Franceschini si cambiò marcia, certificando la salvezza in primavera nelle due partite consecutive più difficili contro Juventus al Delle Alpi, 4-3 con tripletta di Konan e Inter, 2-1 con gol di Tonetto e Bovo. All’ultima giornata il Via del Mare assistette alla festa congiunta per la salvezza di Lecce e Reggina.

L’anno successivo la squadra, passata alle cure di Zdenek Zeman, si ripeté grazie alla definitiva consacrazione dei suoi prospetti. Seguirono anni di sali e scendi tra la A e la B, drammaticamente conclusi con il doppio salto all’indietro nel 2012 per illecito sportivo e l’abbandono della famiglia Semeraro. La Lega Pro è un torneo ostico e lo dimostrano le due finali play-off consecutive perse rispettivamente contro Carpi e Frosinone tra il 2012 e il 2014. Anche quest’anno, vista la appena ritrovata Serie B dopo quasi 20 anni da parte del Foggia, si prospetta l’ennesima post season, speriamo con tutt'altri risultati.

Messina - stagione 2004/05

La stagione successiva avviene l’exploit di una squadra siciliana che mancava dalla serie A da 40 anni, il Messina. E fu un’annata da applausi. La prima partita casalinga mette di fronte i peloritani con la Roma di Del Neri, arbitro dell’incontro Pierluigi Collina. Dopo essere passata per due volte in vantaggio, il Messina viene ripreso dalla tripletta di Vincenzo Montella. Al 75′ Domenico Giampà, che poche settimane dopo si procurerà un tremendo infortunio sbattendo una coscia contro i tabelloni pubblicitari, pareggiava i conti. Pochi minuti dopo, il tripudio: Riccardo Zampagna superava Ivan Pelizzoli con un pallonetto stupendo, prima di portare le mani alle orecchie per godersi il boato dei suoi. Un 4-3 scoppiettante che, come detto, fu solo il preludio per una stagione da incorniciare. Altro fattore che diede slancio alla corsa del Messina fu l’inaugurazione del nuovo stadio, il San Filippo, i cui lavori iniziati nel 1989 e travagliati da fallimenti e complicazioni di ogni tipo erano terminati nel momento più opportuno. L’impianto, oggi dedicato alla memoria di Franco Scoglio, era un gioiello per l’isola, la giusta cornice per la nuova avventura ai massimi livelli dei peloritani. Andava a sostituire il comunale Giovanni Celeste, storico impianto calpestato fin dagli anni Trenta e incastrato all'interno del quartiere Gazzi, secondo logiche urbanistiche di un tempo. 

Tre giorni dopo la vittoria contro la Roma, Giampà e Zampagna ammutolirono i 60mila tifosi milanisti di San Siro, rispondendo all’iniziale gol di Pancaro: 1-2 contro i campioni d’Italia in carica. La prima sconfitta arrivava alla sesta giornata contro la capolista Juventus in uno scontro al vertice visto che i bianconeri precedevano i siciliani di appena due punti in classifica.

In quella rosa fenomeni non ce n’erano: davanti a Marco Storari figuravano l’ivoriano Mark Zoro, l’iraniano Rahman Rezaei e i palermitani Salvatore Aronica e Alessandro Parisi, fluidificante instancabile sulla fascia; a metà campo Massimo Donati, in prestito dal Milan, l’agonismo di Carmine Coppola e la fantasia di Gaetano D’Agostino; davanti le bocche di fuoco, oltre a Zampagna che all’epoca non aveva mai calcato i campi della A ma segnò comunque 12 reti all’esordio, erano Nicola Amoruso, Arturo Di Napoli, autore in tutto di 9 gol, e la meteora giapponese Atsushi Yanagisawa, incapace di reggere il confronto con il connazionale Nakamura di là dello Stretto. In panchina Bortolo Mutti era il comandante di questo esercito che voleva stupire l’Italia. Tra i comprensibili alti e bassi, il Messina si tolse la soddisfazione di battere al ritorno l’Inter in rimonta al 90° e a poche giornate dalla fine il piazzamento che significava Europa era ancora un traguardo concreto. Alla fine il Messina conquistò un incredibile settimo posto e la qualificazione all’Intertoto, che la società rifiutò.

L’anno dopo la squadra si salvò grazie alla tempesta Calciopoli, venendo appunto ripescata, ma la retrocessione era di là da venire già nel 2007. L’incantesimo finì di colpo un anno dopo con il patron Pietro Franza che pur di uscire dalla società decise addirittura di non iscrivere la squadra al campionato cadetto lasciandola sprofondare nel baratro della serie D. Oggi, dopo aver cambiato un paio di volte nome, battaglia come altre nobili meridionali decadute nei pantani della Lega Pro.

Palermo - stagione 2009/10

Come scritto all’inizio, l’avvicendamento tra Maurizio Zamparini e Paul Baccaglini dietro la scrivania della presidenza del Palermo è notizia di pochi mesi fa ed è, quindi, ancora presto per certificare le intenzioni dell’ex inviato de Le Iene, fondatore del fondo di investimento Integritas Capital. Di certo, però, le dichiarazioni “asettiche” del nuovo patron, “l’obiettivo è da sempre stato quello di individuare opportunità nei mercati liquidi e capitalizzare sul re-adjustment dei prezzi”, non saranno suonate granché bene alle orecchie dei tifosi palermitani. Si chiude una epopea tra le più esaltanti e contraddittorie del nostro recente pallone, quella di Maurizio Zamparini appunto. In 17 anni di presidenza si sono avvicendati 28 allenatori, ma l’esperienza del Palermo in A è stata lunga e coronata di numerosi traguardi sportivi e ha regalato al calcio mondiale dei giocatori di livello assoluto. Il link all’articolo sulla nostra Top 11 dell’era Zamparini è esaustivo circa i giocatori e i risultati ottenuti dal suo Palermo. 

Una stagione su tutte è quella 2009/2010, la migliore del Palermo in Serie A con Delio Rossi in panchina che va a sostituire l’esonerato Walter Zenga. Alla fine i record sono numerosi: l'imbattibilità casalinga, il nuovo record di 65 punti totali, i 59 gol fatti come nella stagione 1950-1951, le sole 9 sconfitte come nella stagione 2004/2005 e infine le 18 vittorie totali, una in più della stagione 2008/2009. Considerando la classifica avulsa tra le prime sette classificate in campionato, ovvero le società qualificatesi alle coppe europee, il Palermo è stata la migliore squadra negli scontri diretti, trovandosi in testa a questa speciale classifica con 20 punti, uno in più di Inter e Sampdoria. Tutto ciò, purtroppo, non si è concretizzato con un posto in Champions League, ottenuto dalla Sampdoria e distante solo due punti a fine campionato, ma con un quinto posto, raggiunto per la terza volta nella storia. Il miglior marcatore rosanero è stato Fabrizio Miccoli che con il compagno di reparto Edinson Cavani sono stati la terza coppia gol più prolifica del torneo.  

Catania - stagione 2012/2013

Questa stagione è a doppio volto per la Sicilia, coincidendo con l’ultima retrocessione del Palermo da una parte ma con la migliore nella storia del Catania in Serie A. Fare bene calcio alle pendici dell’Etna in quegli anni era semplice, con un climax crescente partito dalla stagione 2008/2009 con la squadra guidata da Walter Zenga che stabilisce il nuovo record di punti in Serie A (41); da ricordare anche il derby vinto per  4-0 al Barbera contro il Palermo e la magia da centrocampo di Giuseppe Mascara che entra di diritto tra i gol più belli del torneo. Record di punti subito battuto la stagione successiva (45) con in panchina Siniša Mihajlović, alla sua seconda esperienza, dopo Bologna, come primo allenatore. Nel 2010/2011, invece, è la volta della prima esperienza in Europa di Diego Simeone che sostituisce l’esonerato Marco Giampaolo e ritocca il record di punti conquistati in un torneo (46), oltre a vincere nuovamente 4-0 il derby di Sicilia, questa volta in casa. Undicesimo posto e +2 rispetto al record precedente nel computo dei punti totali a fine stagione 2011/2012 per il Catania guidato da Vincenzo Montella, alla sua prima esperienza in panchina tra i professionisti, se escludiamo l’esperienza a Roma quando è subentrato a Ranieri, quando era affiancato da Andreazzoli perché privo del patentino. Nella stagione presa in considerazione, la squadra passa sotto la guida di Rolando Maran e si toglie la soddisfazione di un ottavo posto con 56 punti, sopravanzando l’Inter nella classifica finale. In porta c’era Mariano Andujar; in difesa torreggiavano Nicola Legrottaglie e Nicolas Spolli; a metà campo Sergio Almiròn dettava il ritmo del gioco, affiancato dall’assist man Francesco Lodi e dall’agonismo del capitano Marco Biagianti; in attacco Gonzalo Bergessio era un bomber decisivo, con Takayuki “Maremoto” Morimoto come alternativa. Come si evince, Catania era un’oasi felice per il calcio, con un centro sportivo avveniristico a Torre del Grifo Village inaugurato nel 2011, un direttore sportivo competente come Pietro Lo Monaco ed una tifoseria affezionata. Forse l’addio di Lo Monaco nel 2012 per intraprendere esperienze poco fortunate al Genoa e al Palermo, prima di diventare proprietario del fallito Messina, è la causa nel brevissimo periodo del declino etneo. In un paio di stagioni, complice anche un illecito sportivo per evitare la retrocessione confessato dallo stesso presidente Pulvirenti, si trova in Lega Pro, senza ambizioni di classifica. La speranza è quella di vedere nuovamente lo stadio Massimino gremito come proscenio di un grande appuntamento calcistico.

 

Autore: Andrea Longoni

Che fine ha fatto Vratislav Greško?

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Oggi è l’anniversario  di uno dei primi harakiri calcistici di recente memoria. Ovvero del napoleonico 5 maggio 2002: dall'altare alla polvere. Il calcio mediatico insegna che come ogni trionfo ha bisogno di un eroe, così ogni disfatta pretende un capro espiatorio. E il giovane Gresko ha sempre dimostrato una certa predisposizione per il ruolo: modi gentili, faccia stinta, disimpegni maldestri, sguardo triste, dolce vita bianca sotto la casacca nerazzurra da ragazzino cagionevole.

Ma ripercorriamo la sua carriera prima di quel nefasto 5 maggio.

Gresko muove i primi passi nel Dukla Banska Bystrica, poi nel 1997 entra a far parte a pieno titolo del calcio professionistico, con la maglia dell’Inter Bratislava (forse un segno del destino). Il salto di qualità avviene nel 1999, anno in cui il Bayer Leverkusen lo acquista dandogli la possibilità di disputare anche la Champions League, ma lo slovacco è chiuso nel suo ruolo da Ze Roberto. Nel frattempo, a livello di rappresentativa, Gresko diventa titolare inamovibile della Nazionale Under 21 e nella fase finale degli Europei del 2000 incontra l’Italia allenata da Marco Tardelli. Nel torneo continentale giovanile si afferma come uno dei terzini migliori dimostrando facilità di corsa e dribbling. La sorte, o la malasorte con il senno di poi, vuole che proprio Tardelli nell’ottobre del 2000 venga assunto come tecnico dell’Inter. A quel punto c’è poco tempo per fare mercato, e il nuovo allenatore va a memoria: si ricorda di Vratislav e decide di farlo ingaggiare. Costo dell’operazione circa 9 miliardi di Lire più un altro miliardo e mezzo per far arrivare il giocatore da subito e non a gennaio. Soldi ben spesi per quello che doveva essere l’erede di Brehme. E proprio su quella fascia sinistra, su cui sembra esserci una maledizione dopo che Hodgson nel ’96 preferì Pistone a Roberto Carlos, Gresko non trova, come nel Bayer, una concorrenza accanita, ed è quindi libero di agire. 

Firma un contratto di cinque anni ed esordisce subito confezionando l’assist vincente per il Chino Alvaro Recoba in un 2-0 casalingo contro la Roma. I tifosi neroazzurri si entusiasmano e pensano di veder finalmente colmato quel vuoto sulla fascia durato troppi anni. Mai illusione fu più crudele. Lo slovacco si rivela ben presto un calciatore mediocre capace di errori grossolani. Non per nulla il pubblico di San Siro lo prende di mira. Delle qualità tanto decantate da Tardelli neanche l’ombra.

Dopo il fallimento totale della gestione Tardelli, l’Inter ha bisogno di un uomo di polso per risollevare la baracca e chiama Hector Cuper che consegna le chiavi della fascia sinistra ancora a Gresko. Questa volta i risultati sono buoni, in una stagione caratterizzata dalla continuità delle prestazioni dello slovacco e di tutta l’Inter, fino a quel fatidico 5 maggio. Quell’ultima giornata di campionato che doveva essere di festa dopo tanti anni di sofferenze e delusioni e che invece si è trasformata nel peggior incubo possibile. E’ inutile dilungarsi sulla partita in questione, ancora viva nelle menti degli appassionati. Molti riassumono la partita in quel maldestro retropassaggio di Gresko a Toldo che ha permesso a Poborsky di pareggiare una partita che poi vedrà vincere la Lazio. Vratislav diventa il colpevole per gli interisti e l’eroe per i tifosi della Juventus, vincitori dello scudetto ad Udine.

E dire che per Gresko quella del 5 maggio non è stata l’unica disfatta di queste proporzioni.

Infatti si scopre che con lui in campo sia il Bayer Leverkusen che l’Inter Bratislava, nonostante i favori del pronostico, avevano perso prima di allora il campionato all’ultima giornata. Ormai è visto come una sorta di gatto nero.

Ovviamente la sua carriera all’Inter si è conclusa proprio quel 5 maggio. In uno scambio con Almeyda si accasa al Parma. In prestito però, visto che nessuno è talmente folle da volerne acquistare definitivamente il cartellino. La sua avventura in terra emiliana dura però pochi mesi, in cui accumula 5 presenze: nel gennaio del 2003 Gresko viene infatti ceduto, sempre a titolo temporaneo, al Blackburn, nelle cui fila in realtà non sfigurerà affatto, tanto che gli inglesi decideranno di riscattare il cartellino. 

Gresko sente di nuovo fiducia intorno a sé e sembra aver ritrovato la sicurezza nel giocare quando nel 2004 subisce un brutto infortunio ai legamenti del ginocchio, il contratto scade e torna in Germania, prima al Norimberga e poi di nuovo al Bayer dove chiude la carriera nel 2009 con più bassi che alti. 

Si tratta però di un ritiro provvisorio dato che, nel 2011, all’età di 34 anni, il Podbrezova, squadra della seconda divisione slovacca, lo riabilita al calcio giocato mettendolo sotto contratto, fino al suo ritiro datato giugno 2015.

Storia di un giocatore segnato inesorabilmente da un banale errore di disimpegno. Chissà, se quel retropassaggio fosse riuscito avremmo forse raccontato un’altra avventura e un’altra vita.

 

Autore: Andrea Longoni

Che fine ha fatto Cristian Arrieta?

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Oggi parliamo del primo incrocio in assoluto tra calcio e televisione nella quotidianità, un programma che ha tenuto incollati al piccolo schermo una generazione intera di adolescenti instillando in loro il sogno di diventare calciatori professionisti. "Campioni, il sogno", questo il nome del reality come avrete già capito, verteva attorno alla formazione calcistica del Cervia che, dopo aver fatto una selezione per avere una rosa competitiva per giocarsi la promozione dal campionato di Eccellenza in cui militava, faceva poi decidere una parte dei giocatori titolari da schierare, uno per reparto, al pubblico da casa tramite il televoto. L'allenatore era il vulcanico e sempre irrequieto Ciccio Graziani mentre il direttore sportivo era il pingue e goliardico Giancarlo Magrini. Una coppia che era un programma. In quella stagione, correva l'anno 2004/2005, riuscirono a portare il Cervia per la prima volta in Serie D e soprattutto portarono alla ribalta il calcio “di periferia”, facendo vedere in tv la domenica mattina le partite di Eccellenza del Cervia. 

Tra i giocatori, i tre migliori vincevano a fine campionato la possibilità di fare il ritiro estivo con una delle tre big di Serie A, Juventus, Milan ed Inter nella fattispecie. Per scegliere la ristretta cerchia di finalisti per il ritiro con i professionisti, ad un certo punto dell’anno si è deciso di far giocare delle partite amichevoli tra il Cervia e le compagini di Serie A. 

Piccola digressione: ricordo ancora la corsa dopo la scuola per andare al Brianteo di Monza a vedere Milan – Cervia (dovrei avere ancora a casa la bandiera della squadra romagnola). Era fine gennaio, mai visto lo stadio così pieno. Di quella partita ricordo il tunnel di Gullo, colui che millantò di aver marcato Del Piero in Champions League quando giocava nel Basilea, a Gattuso e una superba prestazione di Harvey Esajas, l’amico cuoco di Seedorf che lo portò al Milan, sulla fascia sinistra. 

Bene, uno dei tre vincitori finali e che personalmente ritengo abbia fatto una carriera degna di nota, seppur particolare, è Cristian Arrieta. Nonostante fosse stato sospeso per alcune settimane per una bestemmia in diretta televisiva per aver dovuto cedere il posto da titolare al beniamino del pubblico Gullo che veniva sistematicamente televotato, riesce a farsi apprezzare dai giudici che lo eleggono appunto vincitore. La possibilità del provino e del ritiro estivo gliela fornisce l’Inter post Calciopoli di Roberto Mancini. Ma facciamo un passo indietro agli inizi della sua carriera.

Classe 1979, nato ad Orlando, da madre salentina e padre basco, inizia a giocare nella stagione ‘96/’97 con la maglia del Varese, dove però non scende mai in campo. L’anno seguente si trasferisce al Gravellona in C2, dove gioca con continuità. Successivamente si accasa al Mestre, sempre in C2. In Veneto ci resta quattro anni, dalla stagione ‘98/’99 alla stagione ‘01/’02; in questo periodo Cristian cresce come calciatore, riuscendo a trovare una continuità di gioco da titolare e collezionando anche 5 reti, non male per un giovane difensore. Nel 2002 la grande occasione: viene inserito nella rosa del Genoa, che allora militava in Serie B. Nel Grifone però non trova spazio ed a gennaio viene mandato nuovamente in C2, nell’Alessandria, dove in 10 presenze segna 2 reti. Nel ‘03/’04, passa all’Ivrea, dove gioca ancora una volta in C2, collezionando 1 gol in 25 presenze. Un po’ nomade e con la valigia sempre pronta insomma. Non sarà la serie A ma siamo pur sempre nell’anticamera del professionismo. 

A fine stagione compie la scelta che probabilmente gli cambierà la vita: accetta di scendere di ben due categorie per avere la possibilità di mettersi in mostra in televisione nel già citato reality show. Trentatre presenze e tre gol sono il suo ruolino in quella stagione. Come detto, va all’Inter di Mancini, ma il salto è però troppo grande, e dopo la preparazione ed anche la presenza in maglia nerazzurra al Torneo Birra Moretti, Cristian torna nella sua “solita” dimensione, quella della Serie C2, con la maglia del Lecco (allenato ai tempi da Sannino, l’uomo più “very very happy” d’Italia conosciuto nell’Oltremanica) dove colleziona 26 presenze ed 1 gol. L’anno successivo, siamo nel 2006, arriva la chiamata del grande Zdenek Zeman che allena il Lecce appena retrocesso in Serie B. Cristian non si lascia scappare questa nuova grande opportunità, arriva a Lecce (squadra di cui è tifoso, visto che ha dato i natali a sua madre) tra lo scetticismo generale, ed entra a far parte del progetto Zeman che prevedeva il rilancio della compagine salentina. Il duro regime di lavoro imposto dal tecnico boemo non lo spaventa. Arrieta lavora tanto e si conquista un posto da titolare in Serie B, scendendo in campo 7 volte, perdendo sempre però. Zeman verrà esonerato, e con l’arrivo di Papadopulo il difensore non riesce più a trovare gli spazi giusti. Il Lecce arriverà nono in un campionato dominato da Juventus, Genoa e Napoli, mettendo però le basi per la promozione nella stagione seguente, di cui Cristian non sarà partecipe. 

Sì perché si narra che in una di quelle sette partite fosse presente allo stadio un osservatore della MLS americana che lo segnalò ai Puerto Rico Islanders, squadra di vertice della seconda serie statunitense, la United Soccer League. Il classico contratto della vita, forse non tanto per le cifre ma per il prestigio di giocare comunque in un campionato professionistico in continua espansione e perché i Puerto Rico Islanders, partecipano alla Concacaf Champions League (la Champions nordamericana), torneo che, per quanto non paragonabile a quello europeo, mette comunque in palio la qualificazione al Mondiale per Club. Mica pizza e fichi. 

Diventa subito un idolo e in due anni collezione 59 presenze e 18 reti, tra coppe e campionato, vincendo con gli Islanders il campionato USL e la Commissioner’s Cup nel 2008 e vincendo nel 2009 la Caribbean Champions Cup (la competizione che permette alle prime tre di approdare alla Concacaf Champions League). In Concacaf Champions League sforna ottime prestazioni aiutando, anche con alcuni gol, la propria squadra ad arrivare in semifinale in cui, nonostante la sconfitta contro il Cruz Azul, segna e regala un assist, risultando tra i migliori in campo nella doppia sfida coi messicani.

A livello personale, nei due anni portoricani vince il titolo di miglior difensore dell’anno della USL sia nella stagione 2008 che nel 2009, ed il titolo di MVP della USL nella stagione 2009.

Dopo due anni alla grande in USL, nel 2010 viene prestato al Philadelphia Union, che per la prima volta si iscriveva alla MLS, passando quindi nel primo torneo americano per importanza. A Philadelphia farà solo 16 presenze, ma sarà determinante nella prima storica partita vinta in MLS dagli Union. 

Intanto a Porto Rico vedono in lui un giocatore importante e nel 2010 gli viene concessa la nazionalità portoricana (convocabile in quanto ha risieduto per due anni nel Commonwealth of Puerto Rico e primo caso che mi sovviene di tripla nazionalità) e, sempre in quell’anno, a 31 anni, esordisce in Nazionale, segnando il suo primo gol in competizioni tra nazioni, il 4 ottobre 2010 contro il Sant-Martins. Questa esperienza in nazionale gli ha permesso di affrontare, seppur in un’amichevole, la Spagna neo campione d’Europa per la seconda volta consecutiva.

Nel 2011 passa ai Fort Lauderdale Strikers nel campionato NASL, North American Soccer League, che nel frattempo ha sostituito la USL ed è la nuova “Serie B” americana, collezionando 16 presenze ed 1 gol.

Decide di ritornare in Italia dichiarando a La Stampa: “Mi piacerebbe mettere in campo la mia esperienza anche in Italia, prima di tornare negli Stati Uniti”

Ma l’Italia non è Porto Rico e gli USA, geograficamente e calcisticamente parlando, infatti non trova squadre, si allena con lo Juve Domo (militante in Eccellenza), poi, a marzo 2013 firma ufficialmente per il Briga, una formazione che milita in Promozione, finendo con loro la stagione ‘12/’13. Concluso il campionato con il Briga e dopo un provino dall’esito negativo con i ticinesi della Sestese, ritorna negli USA al Massapequea Soccer Club, dove ha iniziato la sua prima esperienza da allenatore, tanto che nel febbraio 2015 ha partecipato al Torneo di Viareggio in veste di allenatore della Primavera del New York LIAC.

Carriera degna di una sceneggiatura televisiva e, prendendo spunto dal nome del reality che l’ha lanciato, non sembra proprio essere stato un brutto sogno.

 

Autore: Andrea Longoni


Bidoni - L'incubo

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Bidoni - l'incubo, Furio Zara. Ed. Kowalski 2006
Bidoni - l'incubo, Furio Zara. Ed. Kowalski 2006

"Mai giudicare un libro dalla sua copertina." (Fran Lebowitz, scrittrice statunitense)

 

Calcio e Dintorni nasce dal desiderio di raccontare storie calcistiche degli anni dopo il 2000, che i lettori collegano a un tempo bello della propria vita.

Questo desiderio è incarnato da un gruppo di amici - la redazione del blog - che scrivono articoli su calciatori, spesso rei di aver disatteso le aspettative dei club italiani che li hanno ingaggiati.

 

Durante le riunioni della redazione ci capita spesso di chiederci: "cosa ispira i nostri racconti?" e la risposta è ogni volta più ricca di dettagli. I ricordi della nostra adolescenza e della prima età adulta si collegano nella nostra mente al calcio, immancabile compagnia delle nostre domeniche pomeriggio.

I gossip del calciomercato, le epiche avventure dei campioni e le loro prodezze sul campo sono solo alcuni dei motivi che animano il nostro blog. Le peripezie di calciatori strampalati tra i campionati più o meno conosciuti sono un altro importante ingrediente che rimpolpa le nostre pagine.

Una decina di anni fa avevo scorto nello scaffale di una libreria un titolo accattivante, con una copertina verde stilizzante un campo di calcio sopra cui un giocatore non meglio precisato giace disteso sul terreno. Forse sfiancato da un campionato di cui non è all'altezza? Forse dopo una lunga corsa per festeggiare il suo unico gol in Serie A?

 

Dopo tutti quegli anni ho trovato su un sito internet una menzione a questo libro, che mi ha colpito vista l'originalità del racconto riportato.

Il titolo del libro è Bidoni - L'incubo, è stato pubblicato nel settembre 2006 da Kowalski dall'autorevole firma di Furio Zara, giornalista sportivo del Corriere dello Sport.

Sono tornato nella stessa libreria dove avevo scorto il libro e mi sono diretto verso lo scaffale dove allora e tuttora erano proposti tutti i titoli calcistici e sportivi e con mio rammarico non ho più trovato quel manuale, che forse avrei dovuto comprare al tempo.

Non mi sono lasciato scoraggiare, sapendo che probabilmente su qualche sito di e-commerce avrei trovato il tanto desiderato libro. Ho digitato su Google il titolo e scoperto che si poteva ordinare su un noto sito di e-Commerce.

Non mi sono lasciato sfuggire l'occasione - anche perché il sito segnalava che rimasta una sola copia disponibile - ed ho ordinato il libro. Una volta ricevuto a casa, ho aperto con religiosa cura il pacchetto che lo conteneva e scoperto che Bidoni - L'incubo era il libro che noi di Calcio e Dintorni avremmo voluto scrivere.

 

Il libro è suddiviso in mini-capitoli di due o tre pagine e ciascuno narra le vicende di un bidone che ha vestito la maglia di una squadra della Serie A tra il 1980 e il 2006. Sin dalla lettura delle prime pagine, il libro mi è sembrato quello che avevo pensato: involontaria ispirazione di molti articoli presenti sul blog Calcio e Dintorni, in particolare della rubrica "Che fine ha fatto?".

La lunga attesa mi ha premiato con un libro fantastico che ogni amante del calcio recente dovrebbe avere in bell'evidenza su uno scaffale.

Lo consiglio a tutti coloro che amano gli eroi del calcio, ma soprattutto gli antieroi del calcio moderno.

 

Autore: Gianmaria Borgonovo

Perché una squadra si chiama "Hapoel", "Maccabi", "Beitar", "Bnei" o "Ironi"?

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Ci saremo chiesti almeno una volta nella vita il significato del nome di alcune squadre di calcio, specialmente durante i match che coinvolgono squadre israeliane.

I manuali di calcio e i risultati dei turni preliminari di Europa League riportano la cronaca delle partite di squadre con nomi pittoreschi, che in realtà rappresentano uno spaccato culturale della nazione a cui questi club appartengono.

In questo articolo si risponde alle domande:

 

  1. Che cosa significa "Hapoel" nel nome di una squadra?
  2. Che cosa significa "Maccabi" nel nome di una squadra?
  3. Che cosa significa "Beitar" nel nome di una squadra?
  4. Che cosa significa "Bnei" nel nome di una squadra?
  5. Che cosa significa "Ironi" nel nome di una squadra?

Abbiamo risposto ad altre curiosità in questi articoli:

Simbolo dell'Hapoel Tel Aviv
Simbolo dell'Hapoel Tel Aviv

1. Che cosa significa "Hapoel" nel nome di una squadra?

Alla sola lettura del titolo dell'articolo, l'appassionato di calcio avrà subito pensato al nome Hapoel come prefisso della nota squadra dellacapitale israeliana. L'Hapoel Tel Aviv è il club piùnominato negli ultimi anni, ma recentemente sono divenute famose anche le seguenti squadre: Hapoel Petah Tikva, Hapoel Nazareth IllitHapoel HaifaHapoel Beer Sheva (che ha eliminato l'Inter nella fase a gironi dell'Europa League 2016-2017).

 

In lingua ebraica, la parola Hapoel significa lavoratore e rappresenta un'associazione sportiva che consentiva alla classe operaia delle città di riferimento di giocare in un club sportivo.

 

Nel caso dell'Hapoel Tel Aviv, l'associazione sportiva che comprende anche il club calcistico fu fondato nel 1926 come unione dell'Histadrut (sindacato sionista della Palestina, ai tempi del mandato inglese), come rappresentanza della classe operaia dell'attuale capitale israeliana.

 

Simbolo del Maccabi Tel Aviv
Simbolo del Maccabi Tel Aviv

2. Che cosa significa "Maccabi" nel nome di una squadra?

Il nome Maccabi è tra i più noti tra quelli delle squadre israeliane ed è anche il nome con più rilevanza storica.

Nella Bibbia, così come nella storia latina tale nome è ricorrente nella sua versione "Maccabei", che identificava una famiglia israeliana capace di sconfiggere la dinastia dei seleucidi,di stirpe greca e fortemente collegata ad Alessandro Magno.

Grazie a questa storica vittoria - che garantì la liberazione della Giudea dal dominio ellenico - la famiglia dei Maccabei divenne per la cultura ebraica simbolo di coraggio, tanto da essere tuttora ricordata come simbolo di valore, specialmente nell'ambito sportivo.

 

I club Maccabi più noti sono il Maccabi Tel Aviv, il Maccabi Haifa, il Maccabi Netanya, il Maccabi Petach Tikva e il Maccabi Ali Nazareth, mentre a Parigi è presente il Maccabi Paris, nato nel 1948 come centro sportivo (soprattutto focalizzato su arti marziali e basket) per cittadini ebrei francesi, poi aperto a tutti. Altri club Maccabi sono presenti nella maggioranza degli stati europei (tra cui Italia e Ungheria), in nord America (USA, Canada) e in Australia.

I club Maccabi non sono solo calcistici, bensì sono vere e proprie società sportive capaci di organizzare un evento di portata internazionale come le Maccabiadi, in cui i club Maccabi di tutto il modo si sfidano con cadenza quadriennale, similmente alle Olimpiadi moderne.

 

Simbolo del Beitar Gerusalemme
Simbolo del Beitar Gerusalemme

3. Che cosa significa "Beitar" nel nome di una squadra?

Beitar è un nome meno noto dei primi due nomi, ma comunque presente negli almanacchi del calcio europeo.

 

Beitar o (Betar) ha un significato politico, in quanto è il nome dell'associazione giovanile legata al Partito revisionista sionista fondato negli anni venti del 1900 da Vladimir Jabotinskij.

I club Beitar hanno fin dalla loro origine una forte connotazione politica e si sono diffuse nella prima metà del 900 nelle principali nazioni europee. Le due squadre Beitar più famose sono il Beitar Gerusalemme, attualmente al vertice della Ligat ha'Al e il Beitar Tel Aviv Ramla, che milita nella Israel Leumit League (seconda serie israeliana).

 

Simbolo del Bnei Sakhnin
Simbolo del Bnei Sakhnin

4. Che cosa significa "Bnei" nel nome di una squadra?

Bnei è un nome recente per il calcio israeliano e a livello europeo l'unica squadra riportante questo nome (Ihud Bnei Sakhnin) ha un'esperienza di un solo anno.

La storia delle società Bnei è molto interessante e segue l'evoluzione storico-sociale che si auspica per la regione geografica della Palestina, contesa da settant'anni tra popolo ebraico ed arabo. Il vocabolo stesso (Bnei) indica "figli di Israele" e nel caso del Bnei Sakhnin ha una valenza molto importante, poiché desidera unire l'anima ebraica e palestinese che coabitano dal 1948 il territorio israeliano-palestinese.

 

In particolare, il processo di fraternizzazione tra questi due gruppi sociali è stato recentemente favorito dallo sceicco del Qatar Hamad bin Khalifa Al Thani, che ha finanziato la realizzazione dello stadio della città di Sakhnin (Doha stadium), in seguito alla fusione tra le due realtà calcistiche cittadine esistenti fino al 1996 (Maccabi Sakhnin e Hapoel Sakhnin).

Bnei indica a Sakhnin e in altre città la fratellanza arabo-israeliana, che il mondo del calcio e non solo si auspica per il presente ed il futuro.

Oltre all'Ihud Bnei Sakhnin, la principali squadra riportante questo nome è lo Bnei Yehuda Tel Aviv.

 

Hapoel Ironi Kiryat Shmona
Hapoel Ironi Kiryat Shmona

5. Che cosa significa "Ironi" nel nome di una squadra?

Il termine Ironi o Irony significa in ebraico "urbano".

Il termine viene usato da poco tempo per identificare dei club sportivi israeliani, tra cui il più noto è l'Hapoel Ironi Kiryat Shmona, squadra di recente costituzione, poiché nata dalla fusione del Hapoel Kiryat Shmona con il Maccabi Kiryat Shmona.

Oltre al team di Kiryat Shmona, anche l'Hapoel Ironi Akko riporta questo nome.

La storia del marchio FIGC

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Attuale logo FIGC
Attuale logo FIGC

La settimana calcistica appena trascorsa, dedicata alle ultime partite di qualificazione ai Mondiali di Russia 2018, ha lasciato in eredità ai tifosi Azzurri non poche perplessità sul piano del gioco e dell’atteggiamento.

Allo stadio Grande Torino un pareggio striminzito contro la Macedonia, attualmente al 103° posto nel ranking FIFA, e una vittoria inutile ai fini della classifica finale del girone a domicilio contro l’Albania costringeranno la selezione di Ventura a giocarsi le chance di qualificazione alla roulette dei playoff. L’avversario di turno uscirà dall'urna di Zurigo il prossimo 17 ottobre.

La Federazione Italiana Giuoco Calcio ha però colto l’occasione per mostrare il restyling occorso al logo che da qui in avanti accompagnerà la Nazionale Italiana nei suoi impegni. Di seguito un excursus storico su come si è evoluto nel tempo il logo federativo.

 

Logo FIGC dal 1898
Logo FIGC dal 1898

La FIGC fu costituita a Torino nel 1898 e ha contribuito a far diventare il calcio il più importante fenomeno sportivo nazionale. L'esordio nella Nazionale avvenne però qualche anno dopo: nel 1910 all'Arena di Milano contro la Francia (6-2 il risultato finale).

In quell'occasione l’Italia giocò in maglia bianca. Non si sa bene se la scelta del bianco fu per motivi di convenienza economica o se per omaggio alla squadra più forte dell’epoca, ossia la Pro Vercelli.

L'anno successivo, contro l'Ungheria, fece la sua prima apparizione la maglia azzurra in onore del colore dello stendardo della famiglia Reale dei Savoia, il cui stemma rosso con croce bianca campeggiava sul colore azzurro, per l'appunto. Lo stemma sabaudo rimase in vigore fino al 1946.

Logo FIGC dal 1922
Logo FIGC dal 1922

Qualche lieve modifica però era stata attuata durante il Ventennio fascista: allo stemma sabaudo vennero aggiunti corona e fascio littorio.

Con queste maglie gli azzurri conquistarono con Vittorio Pozzo in panchina e Giuseppe Meazza in attacco due titoli mondiali nelle edizioni del 1934 e del 1938 e un oro olimpico nel 1936. Un periodo sicuramente pieno di successi per la Nazionale.

 

Nel dopoguerra il calcio è tra i fattori che aiutarono l'Italia ad uscire dalle macerie del secondo conflitto mondiale.

Logo FIGC dal 1947
Logo FIGC dal 1947

Un semplice tricolore rimpiazzò lo stemma sabaudo sul petto delle maglie azzurre. Fu però un periodo tragico per il calcio italiano.

Nel 1949 l'aereo che riporta il Grande Torino in Italia da Lisbona si schianta a Superga, una collina nei pressi di Torino. Finisce così la storia della squadra italiana più forte.

Ma non solo, perché in molti dimenticano che Valentino Mazzola e compagni erano il blocco titolare della Nazionale italiana. E ovviamente, la spedizione in Brasile del 1950 ne fu profondamente segnata. L'Italia tornò a mani vuote.

 

Logo FIGC dal 1952
Logo FIGC dal 1952

 

Nel 1952 ci sarà un nuovo cambiamento nel tricolore, in quanto viene aggiunto nella parte superiore un riquadro con la scritta "Italia" in oro. Una modifica che durò fino al 1974. Dal punto di vista sportivo, la Nazionale vive anni di alti e bassi.

Nel 1966 allo stadio Ayresome Park di Middlesbrough la disfatta contro i dopolavoristi nordcoreani per mano di Pak Doo-Ik, caporale dell’esercito nordcoreano, successivamente promosso sergente. Due anni dopo arrivò contro la Jugoslavia la prima e unica vittoria agli Europei, disputati in Italia. Nel 1970, in Messico, gli azzurri disputarono un Mondiale fantastico culminato con la ormai celebre "Partita del Secolo": Italia-Germania 4-3. In finale però arrivò il Brasile di Pelé, e non ci fu storia.

 

Logo FIGC dal 1974
Logo FIGC dal 1974

Nel 1974 l'Italia cambia. Il nostro Paese sta vivendo un periodo complicato politicamente. Sono gli anni di piombo. Attentati, stragi, la Banda della Magliana e tanto altro. Sul campo la situazione è pressoché identica, con una Nazionale lacerata da contrasti interni tra giocatori e polemiche contro il commissario tecnico. Il fallimento del Mondiale di Germania del 1974 ne è la più diretta conseguenza. Valcareggi viene sostituito da Bearzot. E anche lo stemma si rinnova profondamente. Un rombo con il tricolore al centro, un pallone giallo e la scritta FIGC intorno; in alcuni casi il rombo viveva all'interno di un quadrato nei cui angoli c'erano le lettere dell'acronimo. Nel 1978 l'Italia arriva quarta ai Mondiali argentini, perdendo la finalina per il terzo posto contro il Brasile. 

 

Logo FIGC dal 1982
Logo FIGC dal 1982

Nel 1982 la FIGC decide di tornare al classico tricolore con la scritta Italia. Una scelta vintage, come va di moda anche in questi anni. Unica novità è l'inserzione dell’acronimo federativo in oro all'interno del simbolo. Si tratta probabilmente del logo più iconico e ricordato da tutti gli italiani.

Dopo 44 anni di astinenza l'Italia vince il suo terzo mondiale in terra spagnola. L'Italia batte il Brasile prima e la Germania poi in finale al Santiago Bernabeu. E' il mondiale della consacrazione di Paolo Rossi che a fine anno vincerà anche il pallone d'oro; dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini che esulta in tribuna; della partita a scopone più famosa della storia tra le coppie Pertini-Zoff e Bearzot-Causio; ma soprattutto, dell’urlo di Tardelli

 

Logo FIGC dal 1984
Logo FIGC dal 1984

Nel 1984 si cambia ancora, questa volta una svolta più moderna. Un nuovo marchio rotondo sostituisce il tradizionale scudetto. All’interno trovano spazio le tre stelle dorate su campo azzurro, le scritte "Italia" e "FIGC" assieme al tricolore in posizione diagonale. Le maglie cambiano nel materiale, dalla lanetta degli anni precedenti si passa a un tessuto acetato e lucido. Furono gli ultimi anni di Bearzot in panchina, oltre che a quelli della fine dell'Unione Sovietica.

Nel 1989, con la caduta del muro di Berlino, finisce un'epoca anche nel mondo del calcio. Proprio contro l'Unione Sovietica l'Italia viene eliminata dagli Europei tedeschi del 1988 mentre nel 1990 ci sono i Mondiali di casa. La storia azzurra finisce a Napoli, in semifinale contro l'Argentina di Maradona ai rigori, fatali per l'Italia di Vicini.

 

Logo FIGC dal 1992
Logo FIGC dal 1992

Nel 1992 la Federazione indisse un concorso per un nuovo marchio: vinse la proposta di Patrizia Pattacini con una sorta di lettera "i" stilizzata con il puntino azzurro in alto a sinistra; nella parte alta trovavano posto le tre stelle su campo azzurro, al centro su campo bianco la denominazione completa della federazione e in basso il tricolore, ridotto ai minimi termini dai tempi dell’abbandono dello scudo sabaudo.

Questo logo accompagnò l’Italia in due Mondiali, entrambi finiti ai rigori: decisivi gli errori di Roberto Baggio a USA ‘94 e Luigi Di Biagio a Francia ‘98.

 

Logo FIGC dal 2000
Logo FIGC dal 2000

Dopo lo sfortunato Europeo di Olanda e Belgio perso contro la Francia al Golden Goal, regola cervellotica, mai digerita, nel 2000 torna sul petto lo scudetto tricolore, introdotto negli anni Cinquanta, a cui vengono aggiunte per la prima volta le tre stelle dei mondiali vinti nella parte alta, dove solitamente trovava posto la scritta "Italia" e senza l'acronimo.

Le stelle compaiono su autorizzazione della FIFA che, dalla metà degli anni Novanta, permise alle federazioni di portare sulla maglia tante stelle quanti i campionati vinti. Questa volta, purtroppo, il ritorno del tricolore non è stato positivo come nel 1982 con la selezione azzurra di Giovanni Trapattoni, forse qualitativamente la più forte di sempre, che ai Mondiali di Corea e Giappone 2002 esce agli ottavi di finale contro la Corea del Sud, a causa anche della prestazione “sottotono” dell’arbitro Byron Moreno, mentre in Portogallo a Euro 2004 l’avventura finisce addirittura ai gironi, complice il biscotto tra Svezia e Danimarca.

Logo FIGC dal 2006
Logo FIGC dal 2006

Il 2006 fu un anno nero per il calcio italiano.

Lo scandalo di Calciopoli ha segnato molti giocatori e dirigenti, ma non i ragazzi di Marcello Lippi inviati per la spedizione tedesca. Si sa che in condizioni difficili riusciamo a tirare fuori i meglio e il finale della rassegna mondiale tedesca lo conosciamo tutti.

Il logo è stato rifatto completamente, a ricordare lo scudetto originario seppur rivisto alla luce dell'evoluzione del design: una forma più squadrata con il tricolore su fondo azzurro, un segno circolare della FIGC posizionato sul bianco e le tre stelle.

Logo FIGC dal 2007
Logo FIGC dal 2007

Nel 2007, dopo la conquista del quarto titolo mondiale in Germania, il marchio subisce un necessario restyling, ovvero l’aggiunta della quarta stella e il segno circolare della scritta FIGC con dimensioni maggiori tanto da primeggiare al centro del tricolore. Questa versione è rimasta sulle maglie azzurre anche per gli sfortunati Mondiali del 2010 e del 2014, oltre che agli Europei del 2008, 2012 e 2016.

Logo FIGC dal 2017
Logo FIGC dal 2017

Ed eccoci al 2017, un nuovo marchio a forma di scudo al di sopra del quale sono più visibili le quattro stelle dei trionfi mondiali.

La scritta "Italia" campeggia sul tricolore al di sopra di un orizzonte curvoso. Chi ha ideato il logo voleva simboleggiare un’idea ben precisa: “Questo logo vuole dare l’idea di una federazione che sta crescendo. Abbiamo reso più visibili le quattro stelle dei trionfi mondiali perché rappresentano l’orgoglio di tutto il Paese. Il colore importante è l’oro, le stelle si liberano dal contesto e sono pronte a diventare cinque”, ha detto il presidente della Figc, Carlo Tavecchio. 

Auguriamo ai giocatori della Nazionale di Ventura di poterlo sfoggiare nei prossimi Mondiali di Russia. Qualificazione permettendo.

 

Autore: Andrea Longoni

 

Lazio - Anna Frank, cronaca di un disastro mediatico

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Sono ormai diversi, troppi giorni che su ogni mezzo di comunicazione si parla della vicenda che vede protagonisti dei beceri tifosi laziali che hanno attaccato degli adesivi a sfondo antisemita, in particolare quello che ritrae il volto sorridente di Anna Frank, l’autrice di uno dei diari più toccanti della storia moderna, con la maglia della Roma. Da qui si è innescato un meccanismo per il quale si è giunti, se mai fosse stato possibile, ad un finale peggiore, quasi grottesco. Della serie “poteva andare peggio, poteva piovere”. Appunto.

Cerchiamo a bocce ferme di ripercorrere la serie di eventi che si sono susseguiti.

Tutto è iniziato lunedì, quando nella Curva Sud dello Stadio Olimpico di Roma sono stati ritrovati degli adesivi come quelli sopracitati. Gli adesivi erano stati attaccati dagli ultras della Lazio, notoriamente molto vicini all’estrema destra, in occasione della partita di campionato Lazio - Cagliari. Per loro, com’è noto, ebreo è un insulto. Già qui, però, c’è qualcosa che non quadra. Ovvero, cosa ci facevano i sostenitori biancocelesti nella curva che notoriamente viene occupata dai tifosi giallorossi? Anche perché all’Olimpico solitamente, quando gioca una delle due squadre romane, la curva dei rispettivi “cugini” è proprio chiusa. La risposta è presto data. A causa della squalifica per due giornate inflitta dal giudice sportivo alla Curva Nord, il presidente della Lazio Lotito ha deciso, per non fare mancare alla squadra l’appoggio dei suoi sostenitori più caldi, di dar loro la possibilità di “migrare” in Curva Sud al prezzo simbolico di 1 €. Tra l’altro, operazione tecnicamente possibile perché il provvedimento di squalifica è determinato dagli organi calcistici e non dalle autorità di sicurezza. Dimenticavo, il motivo della squalifica comminata alla curva laziale è, neanche a dirlo, il razzismo, declinato questa volta in ululati contro due giocatori del Sassuolo, Adjapong e Duncan.

Il risultato di questo escamotage è tristemente noto. Per dovere di cronaca, oltre allo sticker di Anna Frank, c’erano altri adesivi antisemiti come “Romanista ebreo” o “Romanista Aronne Piperno” (un personaggio ebreo del film Il marchese del Grillo). 

Lo sdegno da parte del mondo “sano” è immediato, soprattutto da quello politico. Ne hanno parlato tutti: dal Presidente della Repubblica Mattarella al Presidente del Consiglio Gentiloni, passando per il Segretario del PD Renzi che su Twitter cinguetta “Se fossi il presidente di una squadra di calcio domani farei mettere sulle maglie la Stella di David e al posto dello sponsor l’hashtag #annafrank”. La notizia è arrivata anche su alcuni media internazionali come il Guardian, NBC News e BBC

La deriva mediatica e il teatrino del grottesco sono, tuttavia, già in atto. Per puro caso, o con il senno di poi possiamo parlare di fatalità, la Lazio aveva da tempo programmato una visita alla Sinagoga di Roma. Un’ottima occasione per prendere le distanze da quella frangia filofascista dei propri tifosi e cercare di distendere gli animi. Niente di più sbagliato. Eppure le premesse non erano state negative, con Lotito che, accompagnato da una delegazione di dirigenti della società e due giocatori, i brasiliani Wallace e Felipe Anderson, ha deposto una corona di fiori sotto la lapide commemorativa delle vittime dei deportati di Roma e ha comunicato che ogni anno organizzeranno delle visite, rivolte a 200 giovani tifosi, ai campi di concentramento di Auschwitz per sensibilizzarli su questi temi. Magari un po’ forzato ma va benone. 

Come detto, il disastro è dietro l’angolo. Non passano neanche 24 ore e in rete gira un audio che vede come protagonista proprio Lotito che, in partenza dall’aeroporto di Linate giusto poco prima della visita alla Sinagoga di Roma, chiede chi della comunità ebraica sarà presente: “Il vice rabbino ci sarà? Solo il rabbino c'è? Non valgono un c***o questi. Tu hai capito come stamo? A New York il rabbino, er vice rabbino”, chiosando con un “Famo 'sta sceneggiata... te te rendi conto”. Apriti cielo, lo scivolone è bello che servito. Lotito non smentisce neanche le frasi carpite nella registrazione. Come potrebbe, l’audio è inequivocabile. Però prosegue nella sua opera di espiazione facendo scendere in campo i suoi giocatori durante il riscaldamento pre-partita contro il Bologna al Dall’Ara con una maglia bianca raffigurante Anna Frank con sotto la scritta “NO all’antisemitismo” e facendo porgere una corona di fiori, un’altra, sotto la lapide commemorativa di Arpad Weisz, allenatore ungherese di origini ebraiche che ha portato il Bologna alla conquista di due scudetti e che ha subito la deportazione nazista, morendo in un campo di concentramento.

 

Qui, ora, entra in gioco la Lega Calcio che, ovviamente, denuncia ad alta voce questo tipo di gesti e decide di inscenare, come già scritto più volte, un siparietto grottesco, con i capitani di tutte le squadre di Serie A che, in occasione dell’ultimo turno infrasettimanale, hanno firmato copie del “Diario di Anna Frank” e di “Se questo è un uomo” di Primo Levi, come se li avessero scritti loro. Ma soprattutto, è stato indetto un minuto di riflessione sull’antisemitismo, durante il quale sono stati letti stralci di queste opere. Errore madornale, perché nella migliore delle occasioni, questi sono stati recitati in stadi semideserti e nella diffusa, forse anche legittima, indifferenza, mentre nella peggiore delle occasioni si è prestato il fianco alla reazione di altri beceri tifosi. Ad esempio, nello stadio della Capitale, la lettura è stata coperta dai cori dei romani a sostegno della squadra. A Torino una parte della Curva Sud della Juventus, quella occupata dai gruppi di ultras, ha cantato l'inno di Mameli. Al Dall’Ara, invece, dopo i gesti simbolici, l’atmosfera di raccoglimento è stata rovinata da un centinaio di sostenitori laziali che aspettavano di entrare nell'impianto bolognese. Prima hanno intonato cori da stadio, poi la “Società dei magnaccioni”, infine hanno intonato il “Me ne frego” di stampo fascista. Il tutto corredato di braccia tese nel saluto romano. Un vero e proprio autogol.

Ora c’è chi si divide, se era necessario sollevare questo polverone per degli adesivi apposti da una cerchia ristretta ignorante di tifosi o se era altrettanto necessario prendere una netta presa di posizione contro le discriminazioni di qualsiasi genere e natura. Sicuramente qualcuno verrà punito ma sarà molto difficile estirpare la sottocultura che si trova dietro le tifoserie organizzate, al calcio e alla società in generale, da sempre specchio di ciò che succede all’interno degli stadi.

La strada, purtroppo, è ancora molto lunga.

 

Autore: Andrea Longoni

 

Che fine ha fatto Hugo Enyinnaya?

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Una delle casistiche nel mondo del calcio che ha sempre affascinato gli appassionati è quella dell’esordio “con il botto”. Quelle partite per cui non è necessario essere esperti di calcio per poterne parlare, tanto è ancora impressa nella memoria. Una carriera che potremmo sintetizzare in un luogo e in una data precisi: 18 Dicembre 1999, stadio San Nicola di Bari.

Si gioca Bari – Inter. I più se la ricorderanno per il gol del definitivo 2-1 di Antonio Cassano, ai tempi giovane promessa del vivaio barese che realizza una delle reti più belle della storia del campionato italiano: fuga in progressione dopo sontuoso aggancio di tacco, dribbling che manda “al bar” Blanc e Panucci e stoccata di destro che trafigge Ferron. Antonio Cassano ha iniziato quel giorno una carriera ad altissimo livello dove però tanto talento e troppe occasioni sono state sprecate. Molto meno si parla dell’altro autore del gol di quella partita, sempre sponda Bari. Ugochukwu Michael Enyinnaya il nome completo, più semplicemente Hugo, ha dato inizio alla sua carriera allo stesso modo del fantasista di Bari Vecchia. Esordio con gol contro l’Inter. Un gol fantastico peraltro, un missile imprendibile a 7’ dal fischio d’inizio da quasi 40 metri sotto la traversa che coglie di sorpresa Peruzzi e che porta in vantaggio i pugliesi. 

Amici dentro e fuori dal rettangolo verde, ma da quel giorno niente ha più accomunato i due talenti di quel Bari. Due strade decisamente diverse. A ulteriore testimonianza che nel calcio e nello sport in generale non sempre va come ci si immaginerebbe. Ma riavvolgiamo il nastro.

Enyinnaya nasce in Nigeria, a Warri, città portuale che sorge sul delta del Niger, l’8 gennaio 1981. Come ogni baby prodigio che si rispetti, Hugo si impone fin dalla tenera età, dando sonore lezioni a ragazzi ai quali rende almeno quattro o cinque anni e arrivando a esordire in prima divisione nigeriana ad appena sedici anni con la prestigiosa maglia Eagle Cement di Port-Harcourt. Nel 1998 la discesa in seconda serie “per farsi le ossa”, al FC Ebedei di Lagos, un club da sempre particolarmente aperto ai rapporti con il calcio europeo. Per il ragazzo africano si aprono ben presto le porte del calcio europeo: il Molenbeek, club della seconda divisione belga, punta su di lui e viene ripagato con sei reti nelle venti presenze disputate al primo approccio col calcio del vecchio continente. Le reti non servono a riportare il Molenbeek nella Jupiler League ma pubblicizzano molto il suo nome, che nel frattempo approda anche alla Nazionale Under 20. Con la rappresentativa biancoverde disputerà sei delle gare di qualificazione a Sidney 2000, ma non venendo convocato per la competizione olimpica.

Come detto, il nome di Enyinnaya è sul taccuino di molti direttori sportivi, tra cui quello del barese Carlo Regalia, che notò il giocatore nigeriano durante un allenamento sostitutivo di una partita di Coppa belga rinviata per maltempo che doveva giocarsi contro l’Anderlecht.

Viene proposto al giocatore un provino che va a buon fine, e dunque il nigeriano firma un contratto quinquennale con i galletti, che sborsano circa 200 milioni di lire per il suo cartellino. Viene inserito nella rosa della squadra Primavera e insieme al già citato Fantantonio compone un tandem devastante. La voce arriva all’allenatore della prima squadra Eugenio Fascetti che, con il coraggio che da sempre lo contraddistingue, decide di approfittarne, convocandoli inizialmente per scaldare la panchina e per far respirare loro un po’ d’aria di Serie A. A differenza di Cassano che esordisce nel derby contro il Lecce e complici gli infortuni di Masinga e Osmanovski, Hugo deve attendere la settimana successiva. Come anticipato, si gioca contro l’Inter. A Lippi che schiera la coppia d’attacco Zamorano – Vieri, Fascetti risponde con Enyinnaya - Cassano, 35 anni in due. I 90’ seguenti sono storia.

Proprio ora ci si trova figurativamente davanti a un bivio e i due ragazzini prendono strade diverse. Se da una parte Cassano diventa presto titolare inamovibile di quel Bari, Enyinnaya, anche a causa di vari infortuni, gioca pochissimo segnando comunque un altro gol contro il Venezia, senza ovviamente sapere che quello sarà il suo ultimo in carriera in Serie A. L’anno seguente Antonio Cassano esplode definitivamente come uno dei migliori giovani talenti italiani, mentre Enyinnaya passa da un infortunio all’altro senza segnare nemmeno un gol e senza riuscire ad evitare la retrocessione in serie B.

Nel frattempo Cassano parte con la sua testa matta per Roma e inizia la sua vita da professionista tra i grandi e nei principali club italiani e non. Tutto fa pensare, dunque, che Hugo possa trovare maggiori possibilità di entrare in campo. Le cose non vanno proprio così, infatti nella serie cadetta Valdes e Spinesi partono in pole position, e alla fine della stagione il nigeriano conterà soltanto 9 apparizioni, tutte da agosto a gennaio, con un solo gol segnato. E’ ora di cambiare aria e nell’estata del 2002 il Bari decide di darlo in prestito al Livorno, sempre in serie B, dove l’inizio è più che incoraggiante. Entra in campo nella partita contro la Triestina e dopo neanche un minuto fa gol. Anche in Toscana pensano di aver trovato un fenomeno e un titolare fisso dell’attacco, ma ben presto si ricredono. Il nigeriano entra quasi sempre a gara iniziata e non incide granché chiudendo la stagione con sole 2 reti all’attivo. Nell'estate 2003 il Bari lo richiama alla base, ma il tecnico Tardelli gli riserva uno spazio davvero esiguo, non facendolo mai partire da titolare. La parabola già discendente dell’attaccante africano precipita vorticosamente con il trasferimento al Foggia in serie C dove non gioca quasi mai, al punto che il Bari a fine stagione lascia scadere il suo contratto. 

Non si dà per vinto, Hugo, convinto che la sua carriera può ancora regalare qualcosa. Ma è costretto ad emigrare in Polonia dove trova spazio in serie A nel Gornik Zabre e poi in serie B con le semisconosciute Lechia Zielona Góra e Opra Opole dove gioca fino al 2008 con discreti risultati ed un buon bottino di reti, 31. Ma in Polonia non si vedono i soldi, in compenso dagli spalti piovono banane all’indirizzo del povero Hugo, che oltre al danno è costretto a vivere l’umiliazione del razzismo dei “tifosi” della sua squadra. Sembrano così lontani i tempi della serie A, della ribalta a grandi livelli e dei titoloni sui giornali. A lui manca l’Italia e vuole tornarci a tutti i costi, poco importa se ormai quelle che bussano alla porta sono squadre di serie inferiori. Prima però tenta di trovare spazio in serie B, chiede un ingaggio al Frosinone ma senza risultati. Proprio in quel frangente lo contatta il Boville Ernica, squadra dell’omonimo paese del frusinate e che milita in serie D: l’accordo sembra cosa fatta, ma salta quando le penne stanno già per toccare i fogli del contratto, lasciando ancora una volta Enyinnaya a piedi, seppur per pochi giorni perché nello stesso gennaio del 2009 lo ingaggia l’Anziolavinio, Eccellenza laziale dove fa parlare di sé più per il passato che per il presente: un solo gol in campionato e mancata riconferma che porta il nigeriano in Brianza, a Meda, sempre in Eccellenza. In Lombardia segna 4 gol, lasciando poco il segno e venendo costretto a fare le valigie al termine del campionato a causa del tracollo finanziario della società che fallisce nel giugno del 2010. Enyinnaya capisce che la sua carriera è agli sgoccioli, trova un ingaggio in serie D, a Zagarolo, altra periferia laziale. Qui poco o nulla da segnalare.

Cala così, nell’estate del 2011, il sipario sulla carriera di Hugo Enyinnaya che decide di ritornare in Nigeria. 

Un gol lo ha reso famoso, ma che da solo non è stato capace di dare la spinta ad una carriera di alto livello.

 

Una carriera in un tiro, possiamo osare, prima di spegnere i riflettori e passare da attore protagonista a ultima delle comparse.

 

Autore: Andrea Longoni

La maglia della Juventus per i suoi 120 anni

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Nell’autunno del 1897, un gruppo di studenti liceali, riunitisi su una panchina di Corso Re Umberto a Torino, fondò l’attuale Juventus Football Club. Sono passati esattamente 120 anni e domenica la squadra festeggerà l’anniversario indossando una maglia celebrativa durante la partita di campionato all'Allianz Stadium di Torino contro il Benevento.

La Juventus, infatti,  ha realizzato una speciale maglia da collezione, in edizione limitata e numerata, che condensa il ricordo dei campioni del passato e la promessa attuale dei successi futuri. Una maglia speciale che sintetizza elementi d’ispirazione vintage e attitudine contemporanea.

Ispirata alle divise anni ’50, la maglia celebrativa presenta le classiche strisce verticali nella parte frontale e un colletto a girocollo. All’interno del colletto, il logo richiama il primo stemma e la data di fondazione della Juventus.

All’altezza del cuore brillano le tre stelle d’oro, una per ogni 10 scudetti vinti. Le stelle sono racchiuse in un rettangolo bianco, un dettaglio usato per la prima volta nel 1982/83 dopo la conquista del ventesimo scudetto. Gli sponsor di maglia della Juventus, Adidas, Jeep e Cygames, hanno accettato di comparire in nero su nero e in versione ridotta, valorizzando l’estetica ricercata del modello. Non è chiaro al momento se durante la partita la squadra scenderà in campo con lo scudetto tricolore e la coccarda della Coppa Italia , così come non è stato specificato se compariranno anche i nomi. 

Come detto, si tratta di una edizione limitata, da collezione: 1897 maglie numerate con cucita sul fondo un’etichetta su cui è stampato il numero del capo acquistato. Ovviamente già tutto sold out.

 

Autore: Andrea Longoni

"Sport Inside": l'integrazione ha fatto gol

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Un progetto nato dalla collaborazione del CSI con il Consorzio Comunità Brianza
Un progetto nato dalla collaborazione del CSI con il Consorzio Comunità Brianza

"Non è il colore della pelle che fa l’avversario ma quello della maglia".

Esordisce così Emiliano Mondonico, indimenticato mister del Torino tra le altre, presentando il progetto Sport Inside nella sala della provincia di Monza.

L’8 novembre il CSI – Comitato di Milano e il Consorzio Comunità Brianza hanno presentato il loro progetto che mira a facilitare l’inserimento nelle società del CSI  della provincia di Monza e Brianza di richiedenti protezione internazionale ospitati nelle strutture CAS e SPRAR gestite dal Consorzio Comunità Brianza.

Ciascun giovane richiedente protezione internazione partecipa ogni settimana a ben due allenamenti, alla partita di campionato (come previsto dal calendario sportivo CSI) e alle attività proposte dall'oratorio di riferimento. Un percorso di integrazione e inclusione che vede lo sport quale strumento vincente in grado di superare i pregiudizi e le diversità trasformandole in punti di forza.

 

Lo sport apre nuove strade, la palla ora passa anche ai giovani migranti che diventano protagonisti della loro integrazione, riuscendo a vivere la normalità e quotidianità del territorio che li ospita. L’integrazione diventa possibile se si iniziano ad abbattere le barriere che vedono i “profughi” come estranei nelle società di accoglienza, lo sport, il giocare a calcio insieme aiuta questo processo e fa bene a tutti, ai ragazzi italiani che si devono confrontare con la diversità e ai ragazzi stranieri che entrano a pieno titolo nella società, rispettandone le sue regole.

Il "Mondo" è l’ambassador di questo progetto, consegna quindi un mandato speciale a tutte le società coinvolte, una trentina – che vuole spronare a continuare su questo percorso di apertura. I giovani richiedenti asilo da parte loro regalano al loro nuovo mister un pallone con le loro firme, e chissà che tra queste non si nasconda quella del nuovo Eto’o.

Il mister, da buon mister, non lesina raccomandazioni a questi nuovi protagonisti: "Non fatevi mai distrarre da chi non aspetta altro che cogliervi in fallo. Il vostro comportamento corretto e leale sarà la migliore risposta al pregiudizio e alla paura. Voi avete una grande responsabilità, in quanto state aprendo una strada nuova e svolgete un ruolo di apripista nei confronti di coloro che verranno dopo di voi. Guardate negli occhi le tante persone che vi sostengono e che vi circondano e, insieme a loro, andate avanti".

Per capire fino in fondo cosa sia il progetto “Sport Inside” è stata realizzata una clip, che trovate linkata qui sotto. Un concentrato di testimonianze direttamente dai campi di gioco. Tra le tante, le parole di Amidu (Pinzano 87) “Quando gioco a calcio mi sento bene” e ancore quelle di Salifu (Assosport Desio) “mi è sempre piaciuto giocare a calcio da quando ero piccolo… farlo ora, mi rende felice”. Fanno eco le parole di Carmelo Perna (allenatore Ascot Triante) “Prima di essere un allenatore, sono un educatore” e di Gianluca Meneghini (presidente Ascot Triante): "Lo sport è naturalmente un processo di inclusione. Lo è perché il linguaggio è universale, non è una lingua lo sport, non è italiano, inglese o ghanese. Quando si è in campo bisogna lavorare tutti insieme per ottenere un risultato".

Dall'incrocio dei pali arrivano anche le parole del capitano dell'Assosport di Desio: "Non c’è stato nessun problema. Abbiamo accolto questi ragazzi in maniera tranquilla. Al di là del colore o della razza, la differenza la fa la persona".

 

Autore: Tommaso Castoldi


Spareggio Mondiali, un déjà-vu a ritroso di 20 anni

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L’Italia stasera giocherà contro la Svezia alla Friends Arena di Stoccolma la partita di andata degli spareggi per il Mondiale 2018. I calciofili più appassionati avranno già fatto un salto indietro nel tempo di esattamente due decenni. Sì, perché proprio venti anni fa gli Azzurri  giocavano l’unico precedente in materia di spareggio playoff che sono stati costretti a disputare per ottenere il “pass” per il Mondiale di Francia 1998. Oltre al ricorso storico, i punti di contatto sono diversi. L’avversario dell’epoca era la Russia, e proprio nella Terra degli Zar la Nazionale di Ventura vuole fare tappa il prossimo giugno. Inoltre, l’unico a essere ancora in campo oggi come venti anni fa è Gigi Buffon. Di più, per Gigi, appena 19enne, fu il suo esordio nella Nazionale maggiore.

Nelle fasi di qualificazione per Francia ’98, l’Italia fu inserita nel girone insieme a Inghilterra, Polonia, Georgia e Moldavia. I ragazzi di Cesare Maldini disputarono anche un buon torneo, chiudendo a 18 punti, senza nemmeno una sconfitta, con cinque vittorie e tre pareggi, un solo gol subito e la memorabile vittoria a Wembley contro l’Inghilterra firmata da Gianfranco Zola e dalla saracinesca Angelo Peruzzi. Ma non fu abbastanza: l’Inghilterra passò come prima avendo totalizzato 19 punti. Fatale il pareggio in casa nello scontro diretto contro la Nazionale dei Tre Leoni e, forse ancor più, i due zero a zero ottenuti in trasferta in Georgia e Polonia. Come detto, dal sorteggio uscì la Russia. All’andata, a Mosca, gli Azzurri si ritrovarono un campo innevato e ai limiti della praticabilità. Buffon entrò alla mezz’ora per sostituire l’infortunato Pagliuca, mentre Bobo Vieri portò in vantaggio l’Italia. Un’autorete di Fabio Cannavaro ristabilì la parità e rimandò il discorso qualificazione alla gara di ritorno.

Al San Paolo di Napoli, l’eroe della serata fu Pierluigi Casiraghi che al 53’ con un gran tiro a incrociare trafisse il portiere russo e regalò il Mondiale all’Italia.

Vent’anni dopo, il cammino della Nazionale nella fase a gironi non è stato così esaltante in termini di qualità di gioco espresso, con una netta sconfitta per tre a zero al Santiago Bernabéu contro le Furie Rosse e l’inciampo interno nel pareggio per uno a uno contro la Macedonia al Grande Torino . 

L’ultimo ostacolo al Mondiale di Russia 2018, come detto, si chiama Svezia.

E come tutti ricorderanno, c’è un biscotto da vendicare. Forza Azzurri.

 

Autore: Andrea Longoni

Italia, ripartiamo con loro!

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Federico Bernardeschi, il futuro del calcio italiano
Federico Bernardeschi, il futuro del calcio italiano

Il 13 novembre 2017 è una delle date più negative della storia del calcio italiano. La sconfitta di tre giorni prima a Solna contro la Svezia non viene ribaltata dagli azzurri, che con un deludente 0-0 a Milano non riescono a qualificarsi per il Campionato Mondiale di Russia 2018.

La débâcle ha un notevole impatto non solo dal punto di vista sportivo, ma anche da quello emotivo ed economico (stimato sui 100 milioni di euro) e la rabbia dei tifosi italiani non sembra placarsi, nonostante l'esonero non spontaneo di Gian Piero Ventura.

Dal canto suo, la Federazione Italiana Giuoco Calcio ha indispettito ancor di più i tifosi del calcio azzurro, non prendendosi alcuna responsabilità su quanto accaduto ed addossando le colpe sull'ormai esonerato commissario tecnico.

Il presidente della FIGC Carlo Tavecchio è stato costretto a dimettersi ed ora più che mai è necessario tenere alto l'onore della FIGC a livello internazionale.

A qualificazioni mondiali ancora in corso ci eravamo chiesti le ragioni dietro le convocazioni di Ventura, in vista dell'appuntamento in terra russa. Ora invece dobbiamo suturare le ferite della nazionale azzurra.

I numeri di Ventura

Nonostante la clamorosa esclusione dal mondiale, i numeri dell'Italia di Ventura non lasciano intravvedere una disfatta. In 15 partite, gli azzurri sono stati sconfitti solo in due occasioni (decisive) e hanno pareggiato tre volte. Il confronto con gli ultimi due CT della nazionale (Conte e Prandelli) premia inaspettatamente Ventura.

Le sconfitte di Prandelli e Conte sono prevalentemente in amichevole, mentre il cammino a livello europeo di entrambi gli allenatori si è rivelato all'altezza delle aspettative, sia come gioco, sia come risultati.

Gli ultimi 3 CT della nazionale italiana a confronto
Gli ultimi 3 CT della nazionale italiana a confronto
Lorenzo Insigne: esterno di centrocampo, trequartista o punta laterale?
Lorenzo Insigne: esterno di centrocampo, trequartista o punta laterale?

L'involuzione tattica

Il 3-5-2 che Ventura aveva utilizzato nel Torino si è rivelato adeguato per affrontare la fase iniziale di qualificazione al mondiale. I risultati sono arrivati, nonostante qualche gol subito di troppo contro Macedonia e Israele.

L'obiettivo era qualificarsi al mondiale, possibilmente come primi del girone, ma ciò non era semplice. Il pareggio casalingo contro la Spagna in un girone che garantiva l'accesso al mondiale solo alla prima in classifica ha complicato la qualificazione agli azzurri. In funzione di quel risultato, l'Italia doveva migliorare la propria differenza reti e pareggiare (o vincere) in Spagna per evitare gli spareggi destinati alle migliori 8 seconde dei gironi.

 

In attesa della sfida contro la Spagna che si sarebbe disputata tre mesi dopo, la nazionale ha sfidato l'Uruguay ed in quell'occasione mister Ventura ha sperimentato un ambizioso 4-2-4 con Candreva e Insigne punte esterne e i due centravanti Belotti e Immobile a fare gol. Risultato dell'amichevole: 3-0 per l'Italia e performance convincente. Quattro giorni dopo, l'Italia stende il Liechtenstein per 5-0 con lo stesso schema, che sembra aver fatto dimenticare il solido 3-5-2 venturiano.

 

A settembre 2017, l'incontro con la Spagna viene affrontato con il 4-2-4, con gli stessi interpreti offensivi schierati contro l'Uruguay, ma il risultato è l'esatto opposto: 3-0 per gli iberici. La crisi tattica della nazionale è stata evidente ed ha avuto un'eco internazionale. Da quello sciagurato 2 settembre 2017, Ventura non è stato capace di risollevare la situazione della nazionale e l'Italia è apparsa inadeguata ad affrontare la competizione mondiale.

Il ritorno al 3-5-2 contro la Svezia non è servito a trovare la qualificazione, nonostante il disperato tentativo di assegnare a Jorginho il ruolo di salvatore della patria, nel ruolo di regista di centrocampo.

 

Mattia Caldara, classe 1994. Sarà lui l'erede di Barzagli?
Mattia Caldara, classe 1994. Sarà lui l'erede di Barzagli?

Chi lascia la nazionale?

Dopo la dolorosa sconfitti contro la Svezia, Buffon, Barzagli e De Rossi, ovvero gli ultimi tre campioni del mondo ancora in attività, hanno comunicato il loro abbandono alla nazionale italiana. Il loro ritiro dalla nazionale spalanca le porte ad alcuni giovani in rampa di lancio nei loro club e nella nazionale under 21.

 

Chi prende il posto di Buffon?

Gianluigi Donnarumma è il portiere più quotato per sostituire Buffon, nonostante la crescita di giovani come Alex Meret e Alessio Cragno. Perin è un valido rincalzo, nonostante i problemi fisici che ne hanno frenato la carriera dal 2015.

 

Difesa: su chi puntare

L'abbandono del solo Barzagli, unito al probabile ritorno alla difesa a 4 non sconvolge le gerarchie della nazionale. Chiellini e Bonucci rimangono due colonne azzurre, con Romagnoli, Astori e Rugani pronti a subentrare nel ruolo di difensori centrali. Tra le possibili sorprese c'è Mattia Caldara, difensore centrale della Juventus, in prestito all'Atalanta.

Zappacosta si candida per un ruolo da terzino destro titolare, in attesa del ritorno dello sfortunato Andrea Conti, lungodegente in seguito all'infortunio rimediato con la maglia del Milan. A sinistra Darmian e Spinazzola stanno dimostrando crescita costante, mentre tra i giovani l'italo-marocchino Adam Masina potrebbe essere convocato già dalle prossime partite.

 

Un centrocampo da ridisegnare

Il fallimento tattico di Ventura ha visto come protagonista il centrocampo. Folto ad inizio dell'avventura del tecnico genovese, spopolato e leggero durante la sfida con la Spagna.

De Rossi è stato un perno della squadra da metà anni 2000 ed il suo abbandono apre un casting per ricercare un uomo di grande personalità nella linea mediana.

Parolo garantisce il fisico, Verratti e Jorginho la tecnica, mentre i rientranti Marchisio e Florenzi daranno corsa e copertura nella zona centrale. Il classe 1996 Lorenzo Pellegrini è chiamato a dare conferme su quanto di buono fatto in nazionale (non solo under 21) e nella Roma, così come Roberto Gagliardini, certezza dell'Inter di Spalletti.

Sulle fasce sarà rivoluzione. Candreva, Bonaventura ed El Shaarawy non hanno entusiasmato, così come Federico Bernardeschi, predestinato del calcio italiano e pronto a macinare esperienza europea con la maglia della Juventus. Federico Chiesa è atteso al grande salto di qualità, per ripetere in nazionale quanto di ottimo già fatto nelle nazionali giovanili: da lui ci si attende molto.

 

Andrea Belotti, lanciato titolare da Ventura, sarà il nuovo Vieri?
Andrea Belotti, lanciato titolare da Ventura, sarà il nuovo Vieri?

Il dilemma dell'attacco

Il reparto offensivo non ha un leader, né per gol in nazionale, né per esperienza internazionale. Dopo la sfuriata di Pellé contro la Spagna, il compito di fare gol è stato assegnato ad Andrea Belotti e Immobile, quasi sempre sostituiti durante i match da Éder o Gabbiadini. Insigne e Zaza offrono imprevedibilità, ma devono migliorare in zona gol.

Le comparse Sansone, IngleseLapadula non hanno lasciato il segno quando impiegati. Hanno invece avuto poco spazio, ma potrebbero averne di più in futuro Domenico Berardi e Andrea Petagna, entrambi titolari nelle loro squadre di club.

 

Dove migliorare

I nomi sottolineati in blu sono i giovani da cui l'Italia si attende un grande rendimento e coloro di cui auspicabilmente si narreranno le gesta, tra una decina di anni. Questi giovani hanno le potenzialità per mettersi in mostra ed imporsi con le proprie squadre in Serie A e nel calcio europeo, ma al momento non sono ancora decisivi in nazionale.

Le considerazioni fatte per i giovani italiani si possono estendere a tutta la nazionale italiana, in quanto sono pochi i giocatori con consolidata esperienza in Europa League ed ancora meno quelli con tante presenze in Champions League. Di seguito, i principali problemi della nazionale italiana:

  1. Poca esperienza internazionale degli attaccanti. Belotti non ha nemmeno una presenza internazionale, mentre né Immobile, né Gabbiadini, né Éder non si sono ancora consacrati con le loro rispettive squadre di club in Champions' League. Solo Insigne sta trovando continuità di prestazione in Europa, grazie alle ottime prestazioni del suo Napoli.
  2. Bisogna recuperare alcuni veterani, importanti in passato e potenzialmente decisivi per far crescere i più giovani. Marchisio e Florenzi devono essere riproposti nel progetto di gioco della nazionale italiana e forse persino una convocazione di Balotelli dovrebbe essere considerata...
  3. Occorre ripartire con calma, pianificando tutti i passi da fare per tornare grandi già dalla prossima competizione internazionale. Tavecchio e Ventura non ricoprono più il ruolo che avevano fino al 13 novembre, ma i sostituti non sono ancora stati designati. La fretta di cambiare potrebbe essere pessima consigliera, mentre adesso occorre pianificare in maniera oculata lo sviluppo del calcio italiano.
  4. La crescita dei più giovani deve essere garantita da uno staff di livello internazionale, che verrà scelto dai nuovi vertici della FIGC con scrupolo, valutandone la capacità di dare fiducia ai migliori giocatori dell'under 21.
  5. L'allenatore low cost, come è stato Ventura non ha portato i risultati attesi e l'opportunità di ingaggiare un allenatore costoso, ma di sicuro rendimento (come Allegri, Ancelotti, Capello, Conte o Mancini) deve essere presa in considerazione. Ventura vantava un'esperienza europea di sole 14 partite in Europa League, tutte ottenute in una sola stagione al Torino e ciò ha rimarcato l'inadeguatezza del tecnico a ricoprire un ruolo di guida della nazionale. Ai campionati europei del 2016, la nazionale aveva ottenuto risultati soddisfacenti e sfiorato l'impresa contro la Germania, dimostrando organizzazione tattica, a differenza della pochezza del gioco attuale. 
  6. Occorre trovare un numero 10, che sappia onorare questo numero di maglia con la grinta e la classe che nel passato è stata dimostrata da Totti, Roberto Baggio o Del Piero. Agli europei del 2016 la maglia numero dieci era stata sorprendentemente assegnata a Thiago Motta, un centrocampista di quantità, perché nessun giocatore si è addossato la responsabilità di vestire questa onerosa maglia. Il fantasista deve essere il faro della nazionale e mettere a disposizione della squadra la sua tecnica sopraffina per risolvere partite difficili da sbloccare. Quanto sarebbe stato utile in Italia-Svezia!

Ripartiamo con calma, ragionando su ogni singolo passo, per tornare quelli che eravamo un tempo. Abbiamo tutta una stagione per pensare a come migliorare e durante l'estate potremo vedere come giocano le altre nazionali al Mondiale FIFA di Russia 2018.

 

Autore: Gianmaria Borgonovo

Che fine ha fatto Mauro Esposito?

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Mauro Esposito ai tempi del Cagliari
Mauro Esposito ai tempi del Cagliari

Esistono calciatori di provincia che avrebbero potuto spiccare il volo verso l'olimpo dei più grandi.

Alcuni di essi hanno avuto grande fama per poco tempo, ma facendo il passo più lungo della gamba hanno finito per ritrovarsi con un pugno di mosche in mano.
Ecco a voi, dallo spogliatoio al dimenticatoio Mauro Esposito, attaccante di Torre del Greco, protagonista di un pezzo di storia del Cagliari (199 presenze e 58 gol tra il 2001 e il 2007). In Sardegna, Mauro ha conquistato una promozione in serie A nel 2004, magie a fianco di Zola e 6 chiamate in Nazionale prima con Lippi, poi con Donadoni.

Cresce nel settore giovanile del Pescara, voluto da Pierpaolo Marino ed esordisce in Serie B in Reggiana-Pescara, subentrando nientepopodimenoché a Sossio Aruta, ex Cervia di Campioni e noto al pubblico di Italia1.

 

Gli anni gloriosi in Serie A

Dopo una breve parentesi all'Udinese, passa al Cagliari dove esplode, diventando il beniamino dei tifosi. La Roma decide di investire sul giocatore mettendolo sotto contratto con un triennale, ma è proprio qui l'inizio del declino.

Nella sua unica stagione in giallorosso (2007-08), solo 16 presenze, di cui 8 in campionato e 6 in Champions League, senza lasciare il segno. A fine stagione è girato in prestito prima al Chievo Verona dove accumula 27 presenze e nessun gol: dato strano per un attaccante esterno capace di realizzare 16 gol al suo primo anno di Serie A 4 anni prima!

 

Ai margini della Roma

A gennaio 2010, dopo essere finito ai margini della rosa della Roma, finisce al Grosseto, dove tornerà ritroverà i gol (4), ma non la conferma per la stagione successiva. A giugno 2010, esattamente quattro anni dopo la sua ultima presenza in nazionale contro la Croazia, la Roma gli comunicò che il suo contratto non sarebbe stato rinnovato.

 

Mauro Esposito: campione della UISP Lega Calcio Pescara nel 2013
Mauro Esposito: campione della UISP Lega Calcio Pescara nel 2013

Di nuovo a Roma... nell'Atletico Roma

Nell'estate 2010, non arriva alcuna proposta di contratto, finché a settembre 2010 l'Atletico Roma gli offre un contratto nella allora Prima Divisione.

Disputa una stagione mediocre e nemmeno da titolare, con 19 presenze e 5 gol in campionato. I colpi di scena non sono finiti, in quanto in estate 2011 l'Atletico Roma è fallita ed Esposito resta di nuovo senza squadra. Si allena per un periodo con il Teramo che tuttavia non gli fa firmare nessun contratto.

 

Esperienza in UISP

A febbraio 2013, Mauro Esposito viene ingaggiato dalla "Società Sportiva Quelli della Notte", squadra del campionato di Serie A della UISP (Unione Italiana Sport per Tutti) Lega Calcio Pescara. Il 22 aprile vince il campionato della provincia di Pescara, grazie alle sue 12 reti in appena 7 partite. Il 28 maggio 2013 vince persino la Coppa Italia!
La stagione seguente si apre con la vittoria della Coppa di Lega, mentre il Campionato Provinciale si conclude col terzo posto finale. Il 9 giugno 2014 conclude la propria stagione con la conquista del Titolo Regionale.

 

Che cosa fa ora Mauro Esposito? 

Attualmente Mauro Esposito si occupa del suo brand di moda Barraca, che riscuote successo tra i suoi molti amici calciatori. Totti in primis.

 

Autore: Andrea Longoni

Chi sono i peggiori giocatori dell'Inter?

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L'Inter è la squadra che dopo la Juventus ha vinto più campionati italiani nel nuovo millennio. In seguito alle sentenze di Calciopoli, la squadra nerazzurra ha inanellato una serie di vittorie impressionanti, culminate con la  Champions League 2010, parte del triplete firmato Mourinho.

 

Zanetti, Julio Cesar, Milito, Eto'o, Sneijder, Stankovic, Samuel, Lucio e Cambiasso sono alcuni dei migliori giocatori di quella squadra, che a fine anni 2000' ha riempito la bacheca di trofei dell'Inter, rinverdendo i fasti del passato ormai non tano recente. L'Inter degli anni 2010' è apparsa più altalenante e meno concreta rispetto a quella di pochi anni prima e ciò è dimostrato dai piazzamenti mediocri in campionato ed alle mancate qualificazioni alle coppe europee.

La colpa delle scarse performance di quegli anni è imputabile allo scarso talento di alcuni calciatori della rosa, decisamente non altezza delle ambizioni della squadra meneghina.

Nei nostri articoli siamo soliti analizzare i giocatori migliori di una squadra (Catania e Siena per esempio), ma in questo caso abbiamo deciso di spulciare le formazioni dell'Inter tra il 2000 ed oggi. Abbiamo già parlato dei giocatori peggiori della Juventus da inizio millennio ed ora ci occupiamo di quelli dell'Inter.

 

BIDONI ALLA RISCOSSA!

Dopo un'estenuante riunione di redazione, abbiamo scelto 23 giocatori bidoni che avessero disputato almeno 3 partite con l'Inter, tra campionato e coppe.

Per il ruolo di attaccante c'è stato l'imbarazzo della scelta, in quanto molti giocatori che avevamo pensato (specialmente quelli che hanno militato nell'Inter ad inizio anni 2000) non sono potuti rientrare nella lista definitiva. Allo stesso modo, alcuni centrocampisti degli ultimi anni sono stati scartati, ma nella lista dei bidoni di qualsiasi altra squadra sarebbero sicuramente stati annoverati.

 

Per rappresentare l'Inter di inizio millennio, abbiamo scelto lo schema di gioco 4-2-3-1, il più utilizzato da Frank De Boer nelle sue 14 partite con sole 5 vittorie (37% complessivo) alla guida dell'Inter. Ben poco, confrontato con il 62% di Mourinho ed il 58% di Mancini.

Per De Boer pochi mesi come allenatore dell'Inter, ma sufficienti a garantirgli la nomina di peggior allenatore nerazzurro del nuovo millennio.

Allenatore: Frank (Franciscus) De Boer.
In panchina: Carrizo; Alex Telles, Bréchet, Macellari, Montoya; Kondogbia, Kharja, Maniche, Mariano Gonzalez; Arnautovic, Obinna, Rocchi, Zarate.

 

Una parte dei giocatori ha militato nell'Inter ad inizi anni 2000, perciò risulterà ignota ai tifosi più giovani. Tuttavia, alcuni dei giocatori selezionati sono recenti ingaggi dll'Inter e autori di poche e non indimenticabili partite in nerazzurro.

 

I TITOLARI

15. Fabián Carini, portiere uruguaiano, nato a Montevideo e giunto all'Inter in cambio di Fabio Cannavaro durante l'estate del 2004 in uno degli scambi di calciatori più strani ed incomprensibili (persino peggio di Cannavaro-Guglielminpietro). Per lui 4 presenze e 3 gol subiti in Serie A in nerazzurro, poi un lungo peregrinare tra Cagliari, Real Murcia, Atletico Mineiro, Uruguay ed Ecuador.

Di lui si ricordano solo gli juventini perché permise l'arrivo di Cannavaro...

 

31. Álvaro Pereira, terzino uruguaiano, nato a Montevideo e arrivato all'Inter con un ottimo curriculum maturato nel Porto e al CFR Cluj in Romania. Acquistato per 10 milioni di Euro, disputò in nerazzurro due stagioni tra gennaio 2012 e gennaio 2014, senza lasciare alcun segno tangibile. Molti interisti lo ricordano per i tanti cross sbagliati e per un unico gol contro il Chievo. Se però in poco più di trenta partite in nerazzurro non ha convinto, al suo ritorno in Sud America ha fatto anche peggio, con questo goffo autogol.

L'amore tra Inter e Pereira non è mai sbocciato.

 

16. Gonzalo Sorondo, difensore uruguaiano, nato a Montevideo e giunto a Milano come un carneade nell'estate del 2003. Un anno disastroso in nerazzurro, poi i prestiti allo Standard Liegi e al Crystal Palace, dove è stato riconfermato una volta scaduto il contratto con l'Inter. Nelle 11 presenze in Serie A, Sorondo ha collezionato solo dormite difensive e poche prestazioni degne di nota. Oggi si è ritirato dal calcio giocato e nell'immaginario collettivo è tuttora un carneade.

Talmente bidone, da dimenticarsi chi fosse.

 

24. Nelson "Tyson" Rivas, difensore colombiano, nato a Pedrera e muscolarmente più simile a un lottatore che a un calciatore. Per questo motivo il giovane Nelson è stato soprannominato sin dalla gioventù Tyson, in onore del pugile statunitense Mike Tyson. Sul campo poche soddisfazioni e nonostante l'amicizia con il compagno di reparto e nazionale Ivan Córdoba, le doti da difensore centrale non sembravano adeguate per ricoprire un ruolo da titolare nell'Inter. Il suo talento non si è mai visto appieno a Milano, complice un grave infortunio occorsogli a fine 2008, dopo il quale i nerazzurri hanno deciso di prestarlo a Livorno e Dnipro, in Ucraina.

Più male che bene, ma l'infortunio lo ha penalizzato.

 

24bis. Vratislav Gresko.

 

16bis. Gaby Mudingayi, centrocampista congolese, nato a Kinshasa, forte fisicamente e tra i migliori incontristi della Serie A negli anni intorno al 2010. Esordiente al Torino nel 2004, poi gagliardo nella Lazio e al Bologna. Arriva all'Inter con aspettative da panchinaro, ma con la chance di farsi notare in campionato e nelle coppe, allorché la sua presenza veniva richiesta per far periodicamente riposare alcuni titolari del centrocampo. Nessun gol con l'Inter, né tantomeno alcuna prestazione di livello.

Senza lode, senza infamia.

 

25. Vampeta.

 

11. Luis Jiménez.

 

20. Rubén Botta, trequartista argentino, nato a San Juan ed arrivato all'Inter come svincolato dal Club Atlético Tigre, dopo aver triangolato (pratica alquanto diffusa in questi ultimi 15 anni) a Livorno, senza peraltro mai disputare un match con i labronici. All'Inter non si ambienta e ha a tratti ricordato il ben più noto sudamericano Álvaro Recoba, ma solo per la difficoltà di valutare la sua posizione in campo. Poche presenze in nerazzurro, poi una stagione mediocre al Chievo, dopodiché la cessione - con plusvalenza - ai messicani del Pachuca.

Giocatore misterioso, un po' come il suo ruolo in campo.

 

7. Ricardo Quaresma, ala portoghese, nato a Lisbona e soprannominato Ciganito (piccolo zingaro), per le sue origini zingare. E' il più talentuoso tra i giocatori di questa lista e forse uno dei calciatori tecnicamente più forti che abbia giocato in Serie A dall'anno 2000. A livello mondiale è conosciuto per i due colpi più classici del suo repertorio: la rabona (tiro con i piedi incrociato) e la trivela (tiro di pieno esterno piede).

All'Inter si presenta alla grande, realizzando un gol (peraltro l'unico) contro il Catania con un'indimenticabile trivela. Disputa delle partite con rendimento molto altalenante - altra sua caratteristica - e viene prestato per pochi mesi al Chelsea nel 2009. Torna nell'estate dello stesso anno all'Inter e gioca una stagione da rincalzo, vincendo però la Champions League.

Pagato tanto, troppo: quasi un milione di Euro per match di Serie A disputato.

 

9. Diego Forlán, centravanti uruguaiano, nato a Montevideo e giunto nel 2011 all'Inter dall'Atletico Madrid, ma dopo aver imboccato il viale del tramonto. Il suo palmarès è di tutto rispetto e al tempo i tifosi lo ritennero ideale sostituto del partente Samuel Eto'o. In nerazzurro gioca poco e male, senza mai ambientarsi al calcio italiano, nel quale le difese lasciano meno spazio rispetto a quelle spagnole. Dopo una sola stagione a Milano viene ceduto all'Internacional di Porto Alegre in Brasile, suscitando qualche rimpianto nei tifosi interisti, che si aspettavano di vedere in lui il centravanti capace di impressionare il pubblico iberico e di vincere il titolo di pichichi della Liga spagnola.

E' solo arrivato troppo tardi all'Inter.

 

LA PANCHINA

Le riserve scelte per questa squadra sono di talento ed esperienza internazionale e per molti aspetti negativi pienamente sostituibili ai titolari delineati. I nomi più noti a livello europeo sono Alex Telles, Montoya e Kondogbia. Maniche, Mariano Gonzalez e Mauro Zarate erano attesi a grandi performance nell'Inter, ma hanno totalmente disatteso le aspettative dei tifosi. Macellari, Rocchi e Obinna hanno dimostrato buone doti in altre squadre in Serie A, mentre all'Inter sono stati dei fragorosi flop.

 

MENZIONI SPECIALI

L'analisi delle formazioni dell'Inter di inizio millennio mi ha fatto tornare alla mente un giocatore sfortunato, che a causa di problemi cardiaci non ha potuto mai esordire in maglia nerazzurra: il talentuoso senegalese Khalilou Fadiga. Prelevato nell'estate del 2003 dall'Auxerre dopo essersi messo in mostra l'estate precedente al Mondiale di Corea e Giappone, il giovane centrocampista è stato forzatamente messo ai margini della rosa dell'Inter, a causa di alcuni problemi cardiaci.

Tuttavia, tali problemi hanno solo frenato la sua carriera, ma non lo hanno obbligato al ritiro.

Chissà come avrebbe giocato nell'Inter e in Serie A...

 

CONCLUSIONI

L'Inter è una squadra piena di fantasia e con un pubblico tanto caloroso quanto esigente. Gli anni 2000' sono stati pieni di successi e la mentalità vincente instillata nei giocatori dapprima da Roberto Mancini, poi da José Mourinho ha permesso ai nerazzurri di vincere numerosi scudetti e trofei internazionali.

La crisi della Juventus degli anni 2006-2011 ha favorito l'ascesa della squadra milanese, che con un'ottima progettualità ed acquisti mirati ha saputo creare una squadra fortissima, con giocatori di grande talento.

Alcuni dei giovani dell'Inter di quegli ultimi anni sono diventati importanti giocatori del campionato italiano, come Leonardo Bonucci, Mattia Destro, Davide Santon e Mario Balotelli. Alcuni giocatori con grandi potenzialità, ma non ancora affermati a livello internazionale sono diventati campioni in nerazzurro, come ad esempio Julio César e Diego Milito, mentre per Esteban Cambiasso e Dejan Stankovic l'Inter è stata l'occasione di rilancio.

Gli anni 90' dell'Inter sono stati negativi dal punto di vista delle vittorie degli scudetti, ma hanno instillato alla dirigenza del tempo la necessità di acquistare calciatori forti per realizzare un progetto vincente. Ibrahimovic e Vieira, transfughi della Juventus penalizzata da Calciopoli sono stati due dei principali protagonisti delle vittorie degli anni 2000, mentre Eto'o, Sneijder e Samuel sono stati determinanti per dar esperienza al gruppo che avrebbe vinto la Champions League nel 2010.

 

Nello scrivere questo articolo, la redazione si è sbizzarrita nel proporre nomi di bidoni dell'Inter del nuovo millennio e forse come con nessuna altra squadra abbiamo avuto una così grande abbondanza di calciatori da citare come fallimenti in nerazzurro. Questa follia nelle scelte societarie e la predilezione nei confronti di carneadi e di fantasisti di talento da dimostrare giustifica l'inno della squadra: pazza Inter, amala!

 

Autore: Gianmaria Borgonovo

La fu Steaua Bucarest

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Tra le 24 squadre qualificate alla fase ad eliminazione diretta di UEFA Europa League, la seconda competizione continentale per club, c’è una squadra rumena chiamata FCSB. Molti obietteranno dicendo che si tratta dell’acronimo del Football Club Steaua Bucarest, ovvero la squadra più prestigiosa, la “Juventus” di Romania, potendo contare in bacheca 26 campionati, 22 coppe di Romania, 6 Supercoppe nazionali e, soprattutto, la Coppa dei Campioni del 1985/86 vinta contro il Barcellona. Si dice, infatti, che in Romania la metà degli appassionati di calcio tifi per la Steaua Bucarest. E in effetti, per seguito e prestigio ottenuto negli anni, la Steaua è una delle più grosse società di calcio dell’Europa balcanica. Riprendendo, però, il discorso iniziale l’associazione tra FCSB e la Steaua Bucarest non è così pacifica. Il contesto, come detto, è il calcio dell’Europa dell’Est, caratterizzato da diversi contrasti, con squadre fortissime, in alcuni casi vere e proprie corazzate, che per diversi motivi, legati soprattutto all’instabilità politica della regione, non hanno mai raccolto quanto avrebbero meritato. Oltre alla peculiarità di predicare un calcio più legato a fini estetici che efficace. E nel campionato delle potenzialità sprecate, la Steaua Bucarest primeggia. La squadra che fu di Gheorghe Hagi, il Maradona dei Carpazi, così come la conoscevamo noi non esiste più. Il motivo? Il nome, appunto. Ma andiamo per gradi.

La Steaua faceva parte della polisportiva dell’esercito romeno e negli anni Ottanta la squadra fu gestita da Valentin Ceaușescu, figlio di Nicolae e anche per questo divenne il simbolo del potere e della dittatura romena. Nel 1990, la Steaua Bucarest venne, di fatto, privatizzata. In quell’anno la squadra viene acquistata dal politico e uomo d’affari George Becali, arricchitosi trattando e acquistando terreni di proprietà dell’esercito romeno, e nel 1998 la sezione calcistica venne scorporata dalla società polisportiva assumendo il nome di FC Steaua Bucarest, scatenando, ovviamente, molte reazioni negative, soprattutto nell’ambiente governativo del Paese. La vicenda giudiziaria che coinvolge il club ha inizio nel dicembre del 2014, quando la Corte Suprema, su input del Ministero della Difesa, si era espressa in merito, giudicando illegale l’acquisizione da parte del proprietario Becali (in quel periodo in carcere per corruzione). La sentenza ebbe effetto immediato e la Steaua dovette coprire il proprio stemma dagli schermi dell’Arena Națională, il suo stadio, dalle tute e dalle maglie dei giocatori. In un primo momento le fu vietato anche di usare il nome, ma il club riuscì a mantenerlo. Nelle settimane successive la Steaua modificò il proprio logo e per diversi turni di campionato non poté nemmeno giocare a Bucarest, ma a Pitesti, una città a 120 chilometri dalla capitale e dai due stadi in cui la Steaua era solita giocare: la già citata Arena Națională e lo stadio Ghencea, di proprietà dell’esercito. Qualche mese fa al club è stato ufficialmente vietato di continuare a usare la propria denominazione, che ora non è più Steaua Bucarest ma, per completezza, FC FCSB. E’ ufficialmente un’altra squadra.  

E la vecchia Steaua? L’esercito romeno ha riesumato il vecchio logo e ora la Steaua originale è ripartita dalla quarta serie romena. Inoltre, tutti i trofei vinti fino al 1997 saranno tolti all’FCSB e riconosciuti alla nuova società.

L’FCSB continua ad essere una delle squadre al vertice del campionato romeno, ma solo perché può contare sulle ricchezze di Becali. Piccolo identikit del personaggio: oltre ai 3 anni di galera per corruzione, nel 2009 è stato definito "pericolo pubblico", avendo sequestrato armi in pugno 3 malviventi che volevano rapinarlo. Aveva esonerato un suo allenatore, il turco Yüksel Yesilova, non per problemi tattici, di risultati, ma perché portava sfortuna essendo musulmano. Ha provato a comprare una partita del campionato rumeno per 1 milione e 700mila euro. Scoperto, si è giustificato dicendo che "servivano a comprare cioccolata ai bambini". La UEFA ha squalificato la squadra dalla Champions per l'anno successivo dopo questo scherzetto. Ha vinto 3 giocatori del suo Steaua a poker. Ha fatto ridipingere l'Ultima cena di Leonardo, con lui al posto di Cristo e giocatori/apostoli.

Ha deciso di fondare un partito, "La nuova generazione", che sobriamente propone di istituire ghetti per i gay. 

Ora lo Steaua ripartirà dalle categorie inferiori, potrà tornare ai fasti di Hagi, Belodedici, Lăcătuș. La leggenda di un calcio balcanico che sfornava talenti e squadre vincenti. Con la speranza che la rinascita sia totale, calcistica e morale, e lo Steaua non sia solo sinonimo di corruzione, pacchianate e clan al potere.

 

Autore: Andrea Longoni

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