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Il Cacciatore di Stadi

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Il cacciatore di stadi è un inno alla passione per il calcio. Che non è solo la passione di quello che accade all'interno del terreno di gioco nei 90 minuti della partita. E' la passione che porta a scoprire nuove realtà, anche le più sconosciute. Perché girare gli stadi è un modo per arricchire la propria cultura

 

La prefazione di Maurizio Compagnoni, stimato giornalista e telecronista Sky, coglie in pieno lo spirito con cui è stato scritto il libro "Il Cacciatore di Stadi" di Federico Roccio.

Un'opera, come precisa sempre lo stesso autore, che non vuole di certo essere un manuale sulle teorie del calcio o sulla fenomenologia del tifo ultras, ma uno stimolo a cercare sempre la bellezza nella vita e a coltivare le proprie passioni. 

Di seguito ecco una breve intervista al primatista italiano del "Groundhopping".

Cosa è? Un attimo di pazienza.

Ciao Federico, nel tuo libro "Il cacciatore di stadi" si viene a conoscenza del fenomeno del groundhopping. Ci puoi raccontare di più al riguardo e, soprattutto, da dove nasce questa tua passione?

Innanzitutto, ciao a tutti gli amici di Calcio e Dintorni! Che cosa è il groundhopping? E' un hobby, dal termine inglese "saltare da uno stadio all'altro", ciò significa non seguire solamente la propria squadra del cuore, ma andare a trovare e a scoprire tutti quegli usi, quei costumi, quei mondi e quelle culture, totalmente differenti da quelle che possiamo incontrare nei nostri campionati di serie A, B o C, o anche nelle serie inferiori. La mia passione per il Groundhopping, posso dire che nasce in due fasi cruciali della mia vita.

La prima, quando a maggio del 2007, da tifoso milanista e dopo aver visto tutte le partite in casa della stagione della squadra rossonera, avevo un unico obiettivo: la finale di Atene. Ci fu un'accesa discussione con mio padre, in quanto ero minorenne e fino a quando non avrei compiuto la maggiore età, sotto il suo tetto dovevo fare quello che diceva lui...peccato che di anni ne avevo 17 e 11 mesi! Da quel momento nasce dentro di me quella voglia che un po' in tutti i giovani viene fuori quando si diventa maggiorenni, ovvero il "adesso posso fare quello che voglio". Prima trasferta lunga da lì a poco fu Lecce - Milan: presi un Intercity Notte, 28 ore tra andata e ritorno per un magro pareggio per 1-1.

La seconda fase fu in occasione della mia trasferta in aereo nel 2009 a Catania, quando, parlando con amici di 4/5 anni più grandi, questi mi prendevano in giro perché avevo visto pochi stadi. Mi domandai: "Se ce l'hanno fatta loro, posso farcela anche io!". Quella stessa sera Huntelaar, ormai ex attaccante del Milan soprannominato "Il Cacciatore", siglò una doppietta negli ultimi minuti di gioco, venne coniato anche il mio soprannome: "Il Cacciatore di Stadi". Nella stagione 2009-2010 completo la serie A e inizio a visitare gli stadi dei campionati cadetti e i Paesi più vicini come Svizzera e Francia.

 

Nel raccontare la tua esperienza all'interno di uno stadio ti soffermi sul clima che si respira, sui colori e, perchè no, anche odori. A questo proposito quale è la tifoseria più calda che hai incontrato?

Sicuramente e senza ombra di dubbio le tifoserie dell'est ti mettono i brividi e non solo. PAOK Salonicco, Panathinaikos ma anche Stella Rossa di Belgrado o Dinamo Zagabria. Solo a citare queste squadre, mi torna subito in mente l'odore acre delle torce che invadeva i miei polmoni! Queste emozioni in Italia mi è capitato di viverle nel "Derby della Lanterna", una partita che consiglio a chiunque di assistere almeno una volta nella vita.

 

A volte hai compiuto dei veri e propri tour de force per visitare quanti più impianti sportivi possibili nell'arco di una giornata o di un week end. La pazzia più grande che hai fatto?

Pazzie ne ho fatte tante. Penso che la più grande l'ho fatta lo scorso febbraio per raggiungere la fatidica soglia dei 500 impianti in 30 Paesi, quando sono partito da Bergamo il martedì mattina per andare a Timisoara (Romania), affittare una macchina e raggiungere Belgrado (Serbia) per assistere a Stella Rossa - CSKA Mosca. Qualche ora di sonno, e subito di nuovo in viaggio verso Skopje (Macedonia) per vedere Rabonicki - Renova di Serie A macedone. Tutto di corsa per tornare a Timisoara e nuovo volo per Bergamo perché un volo interno costava troppo e il treno ci metteva troppo tempo. Un'ora di attesa a Orio al Serio e altro volo low cost per Bucarest (Romania) dove ho affittato un'altra macchina per raggiungere Razgrad (Bulgaria) e vedere Ludogorets - Milan. Tre Paesi che non avevo mai visitato in tre giorni, con la Romania (già vista) che faceva da base per raggiungere le varie destinazioni.

 

Hai avuto l'occasione di assistere all'Old Firm di Glasgow, il derby più antico del mondo, e, qualche settimana fa, al derby Intercontinentale Galatasaray - Fenerbahçe. Quale ti ha appassionato di più?

Per quanto simili, sono due tipi di partite completamente diverse. Per cultura innanzitutto: imparagonabile un tifoso scozzese ad un tifoso turco. A mio parere l'Old Firm è più passionale, lo vivi più come un clima di festa che di guerriglia rispetto al Kitalar Arasi derbi, nonostante l'odio che ci sia tra Celtic e Rangers. In Turchia c'è davvero da avere paura prima, durante e dopo la partita. Tra le due scelgo l'Old Firm.

 

Adesso andiamo un po' più sul gusto personale. Quale è lo stadio che più ti ha emozionato?

E qui forse capite perchè ho risposto "Old Firm" alla domanda precedente. Per me il Celtic Glasgow è una tifoseria magica. Nessuno al mondo mi ha mai trasmesso dei brividi come lo hanno fatto loro. Ho avuto la fortuna di vivere quattro mesi in Scozia, vedere dal vivo due Old Firm contro i Rangers e vedere altre partite con loro sia al Celtic Park sia in trasferta. Ricorderò per sempre la mia prima partita al "The Paradise" quando si giocava Celtic - Milan di Champions League. Piansi e non mi vergogno a dirlo al momento dell'inno "You'll Never Walk Alone". Una bolgia, non c'era un solo spazio vuoto, tutti con la sciarpa alzata al cielo... da brividi. Finì 0 - 3 per i rossoneri e al termine del match tutti i "Bhoys in Green" si recarono sotto il settore ospiti per lanciarci le loro sciarpe e congratularsi per la vittoria. Quella sera l'ho conclusa al pub con loro fino alle 5 del mattino e mi innamorai del Celtic. Come un colpo di fulmine, fu amore a prima vista. 

 

Il libro racconta il tuo viaggio in 30 Paesi e 500 impianti. Quale è il conteggio aggiornato ad oggi? Quale stadio vorresti visitare a tutti i costi?

Ad oggi sono arrivato a 542 impianti visitati in 35 Paesi. La prossima tappa sarà Andorra - Lettonia di Nations League.

Uno stadio che vorrei visitare a tutti i costi è La Bombonera a Buenos Aires, tappa fissata per il viaggio di nozze che farò l'anno prossimo!

 

Con il nostro hashtag #CalcioGourmet siamo soliti paragonare aspetti calcistici con altri appartenenti al mondo culinario. Quale cibo da strada, tipicamente all'esterno dello stadio, consiglieresti ai nostri lettori? E, infine, a quale piatto paragoneresti la vita da "groundhopper"?

Ovviamente consiglio i souvlaki che ho trovato fuori da tutti gli impianti greci! Squisitamente buoni e soprattutto economici (1€ a spiedino), ne vale davvero la pena! Con la seconda domanda sono in netta difficoltà, se penso al cibo da stadio. Dico la scotch pie scozzese: calda, morbida e con quel pizzico di pepe paragonabile alla nostra sana follia!

 

"Il Cacciatore di Stadi": ovviamente consigliato a tutti e potrete scoprire che il "groundhopping" può essere contagioso!

 

Autore: Andrea Longoni


Christmas Match 2018: le maglie di Atalanta e Cagliari

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Nel primo Boxing Day calcistico all’italiana Atalanta e Cagliari sono scese in campo con una maglia dedicata al Natale

Per gli Orobici si tratta ormai di un appuntamento fisso, il nono per la precisione visto che hanno celebrato il primo Christmas Match nel 2010.

La Dea questa volta ha deciso di utilizzare la terza maglia personalizzata con lo skyline di Bergamo e un albero di Natale stilizzato sul fronte. Sulla manica, invece, c’era la scritta “Christmas Match, Atalanta vs Juventus, 26 Dicembre 2018”.

Come vuole la tradizione della "Partita di Natale", la maglia indossata dalla squadra atalantina viene realizzata ad hoc per l'occasione e messa all'asta. Tutto il ricavato viene devoluto al Fondo Atalanta aperto dalla società presso la Fondazione della Comunità Bergamasca Onlus e dedicato ad opere di beneficenza sul territorio. 

E per il nono anno consecutivo si è rinnova la partnership con Bergamo TV: è infatti la principale emittente bergamasca ad organizzare l'asta benefica che assegna ognuna delle maglie dei giocatori della rosa nerazzurra alla disputa del match a disposizione per l'edizione 2018 dell'iniziativa. 

Anche per la maglia del "Christmas Match" 2018 è stata realizzata una Limited Edition a disposizione degli sportivi interessati all'Atalanta Store.

Anche il Cagliari si è accodato all’iniziativa per il Christmas Match. Un semplice cappello natalizio è stato posto in cima allo stemma societario sul cuore, nella partita vittoriosa partita della Sardegna Arena contro il Genoa. 

Anche la proposta dei sardi è legata alla beneficenza: infatti le divise saranno messe all’asta su CharityStars a sostegno dell’associazione Los Quinchos. Si tratta di un progetto per i bambini di strada in Nicaragua che, senza una famiglia, vivono in una condizione di estrema povertà e disagio sociale.

 

Autore: Andrea Longoni

Che fine ha fatto Mourad Meghni

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I calciatori solitamente vengono divisi in categorie molto particolari. E’ il turno dei giocatori che devono vivere e affrontare la loro carriera paragonati ad altri colleghi, necessariamente vecchie glorie. Personaggi il cui tocco di palla, visione di gioco, senso della posizione o qualsiasi altra peculiarità balistica, anziché lanciarli verso i grandi palcoscenici, molto spesso finiscono per collocarli sempre più ai margini del calcio che conta.

Questo perché non supportati da una personalità tale da riuscire a convivere con paragoni sempre più fantasiosi o quantomeno prematuri

Aggiungiamo anche il fatto che il protagonista di oggi ha una solidità fisica seconda solo ai vari Cristiano Zanetti e Simone Pepe dei bei tempi e il gioco è fatto.

Riavvolgendo il nastro dei ricordi, la carriera di Mourad Meghni avrebbe potuto prendere una piega ben diversa, se è vero che, dopo aver trionfato nel Mondiale U17 con la nazionale giovanile francese, sbarcò a Bologna alla corte di Stefano Pioli per disputare il campionato nazionale Allievi. Mourad arriva nel Bel Paese dalle giovanili del Cannes, dopo aver rifiutato la corte del Manchester United di Sir Alex Ferguson. Una blasfemia solo a pensarci.

Da tempo la squadra emiliana non primeggiava a livello giovanile, ma nemmeno era competitiva se paragonata a fertili vivai come quello dell’Atalanta, dell’Empoli o delle big di Serie A. Invece, in una compagine infarcita di stranieri, con poche eccezioni come il goleador Luigi Della Rocca, ora in forza al Sasso Marconi in Serie D dopo una carriera spesa in B e C, Meghni assunse i panni del leader, del trascinatore, e soprattutto del dispensatore di giocate preziose, tocchi geniali e gol bellissimi che avevano fatto spendere a molti addetti ai lavori l’impegnativo soprannome di Petit Zizou: stesso ruolo in campo, stessa nazionalità e stessa origine africana dell’ex allenatore del Real Madrid.

Le porte del grande calcio sembravano spalancate per il piccolo fenomeno, capace di schiantare la Roma nella finalissima degli Allievi, giocando contro futuri campioni come Aquilani, Corvia, Ferronetti e il famosissimo, suo malgrado, Paoloni, il portiere borracciaio ex Cremonese che, siamo sicuri, su di lui avrebbe scommesso eccome. Battuta a parte, il debutto in Serie A arriva nel 2003 contro il Milan. In panchina c’è Guidolin che lo fa entrare al posto di Tomas Locatelli nei minuti finali. Il ragazzo si muove bene ed entra in pianta stabile in prima squadra.

Lascia Bologna solo per una stagione per andare in prestito al Sochaux. Al ritorno in Italia gioca con continuità la stagione 2006/2007 e a fine campionato la Lazio si fa avanti per rilevarne la comproprietà. Al Bologna vanno € 2,5 milioni e Meghni si trasferisce immediatamente nella Capitale. 

L'annata biancoceleste non è delle migliori, qualche fastidio muscolare e il poco impiego da parte di Delio Rossi valgono al trequartista soltanto poche presenze; da titolare gioca solo sette partite non riuscendo mai a trovare la rete.

La prima soddisfazione personale con la maglia della Lazio arriva solo l’anno dopo. Le petit Zizou segna nel terzo turno di Coppa Italia contro il Benevento. Nel 2008 diventa ufficialmente un giocatore della Lazio: i capitolini, nell’ambito dell’affare Mudingayi, ricevono l’altra metà del cartellino dal Bologna. Il peggio sembra passato e Meghni inizia a giocare con continuità inanellando delle buone prestazioni fino a dicembre. La doccia fredda arriva durante la sosta natalizia quando il ragazzo subisce l’ennesimo infortunio che lo costringe a restare lontano dai campi fino al termine del campionato. Nel frattempo, Meghni, musulmano e sempre attaccato alle sue radici, fece la grande scelta di optare per la nazionale algerina (anche perché il treno per i Blues era ormai sfrecciato davanti a lui) e finì per diventare presto uno dei giocatori della sua rappresentativa, mostrando un livello superiore a quello di molti altri suoi compagni.

La terza stagione in maglia biancoceleste si rivela problematica già dal ritiro a causa del tendine rotuleo che scricchiola, costringendolo a giocare in condizioni precarie, spesso sotto infiltrazioni. Per cercare di partecipare prima alla Coppa d’Africa e poi al Mondiale 2010 decide di non operarsi complicando gravemente la sua patologia. Così dice addio al mondiale sudafricano e alla sua avventura laziale.

Dopo quell’infortunio Meghni affronta una lunga riabilitazione, ma al rientro si fa nuovamente male con la Primavera.

Nel 2011 scade il contratto con la società romana e, a 27 anni, Mourad Meghni è un giocatore libero, che ha già un grande futuro alle spalle, ma allo stesso tempo la possibilità di crearsi un nuovo avvenire. Ovviamente, non rimase fermo a lungo, in un’epoca in cui se hai il procuratore “giusto” un ingaggio, magari esotico, lo riesci pur sempre a trovare. Nel suo caso si tratta del classico “prendere o lasciare”: inizia così la sua avventura in Qatar, dapprima all’Umm-Salal, dove almeno dimostra di voler andare a giocare per divertirsi (e non solo, come fanno i campioni attempati che transitano da quelle parti, a “svernare” per così dire), segnando 22 reti in 14 partite, con una doppietta in poco più di 5 minuti al suo esordio assoluto in Coppa, mentre in campionato fece ancora meglio, siglando ben 4 reti al debutto.

L’anno successivo va in prestito alla più quotata società dell’Al-Kohr (frenato da un infortunio, si ferma a 7 reti in 5 gare), mentre nel 2012 va a Doha dove difende da protagonista i colori del Lekhwiya

Nel 2015, a causa di un nuovo problema al ginocchio, sorprendentemente decide di cambiare “parrocchia” per praticare il calcio a 5 nei dintorni di Parigi, firmando per la società Champs Futsal. Quella nel futsal, però, è solo una parentesi. 

Torna infatti a calcare il campo di calcio, precisamente in Algeria, con la maglia del CS Constantine

Ora risulta svincolato e fa sorridere come qualche tempo fa il sito France Football ironizzasse sulla sua discesa agli inferi calcistici con dubbio gusto, titolando "Autopsia di un cadavere trascinato dalla Serie A al Qatar"

 

Autore: Andrea Longoni

Il Wanda Metropolitano è il miglior stadio del mondo

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Il Wanda Metropolitano, l’impianto che ospita le gare casalinghe dell’Atletico Madrid, è stato recentemente nominato come “miglior stadio al mondo” durante il World Football Summit 2018.

Ha preceduto, infatti, il Mercedes Benz Stadium di Atlanta, sede delle partite casalinghe dei Falcons in NFL e dell’Atlanta United in MLS, e il CenturyLink Field di Seattle, impianto dei Seahawks in NFL e dei Sounders in MLS.

Progettato dagli architetti spagnoli Cruz e Ortiz, inizialmente era chiamato Peineta e vide la luce nel 1993, anno di fine dei lavori di costruzione, per il concorso "Ciudad Deportiva de la Comunidad de Madrid"

Fu inaugurato il 6 settembre 1994 come stadio di atletica leggera, ma dopo venti anni è stato chiuso per iniziare una prima ristrutturazione mai portata a conclusione.

Successivamente, la candidatura della città di Madrid a sede dei giochi olimpici nel 2012, nel 2016 o nel 2020 portò a una riforma e all'uso dello stadio come olimpico.

Tale riforma avrebbe portato un rinnovamento dello stadio che sarebbe stato in grado di ospitare fino a 66.000 spettatori, ma dopo tre candidature il progetto decadde.

Nel 2008 il Sindaco di Madrid e il Presidente dell’Atletico Cerezo firmarono un accordo economico per il passaggio dello stadio alla società biancorossa.

I lavori ristrutturazione terminarono nel 2016, e assunse la denominazione di Wanda Metropolitano: Wanda in quanto la compagnia cinese che ha detenuto fino al 2018 il 20% delle quote del club, versa 10 milioni di euro annui per i naming rights, e Metropolitano in onore del vecchio impianto che ha fatto la storia dei Colchoneros.

Una storia alquanto turbolenta ma che ha avuto come ciliegina sulla torta nel 2018 il già menzionato premio come migliore stadio ai WFS Industry Awards.

In un comunicato stampa gli architetti Cruz e Ortiz hanno spiegato  che “tra le considerazioni che hanno portato la giuria ad assegnare al Wanda Metropolitano questo premio, ci sono il suo notevole design, le operazioni relative agli svolgimenti delle partite, la sua capacità di ospitare altri grandi eventi, così come l'alto sviluppo tecnologico della struttura e, soprattutto, un'esperienza unica per lo spettatore in termini di comfort, servizi e sicurezza”.

Ultimo, ma non ultimo, il Wanda Metropolitano è stato scelto dalle UEFA come teatro della finale di Champions League 2018/2019.

La competizione per club più importante al mondo si merita un palcoscenico all’altezza.

 

Autore: Andrea Longoni 

Supercoppa Italiana: le finali all’estero

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La Supercoppa italiana edizione 2018 sarà ospitata a Gedda in Arabia Saudita. Si tratta della decima edizione del trofeo che si disputa lontano dal territorio del nostro Paese. 

La decisione di giocare l’ultimo trofeo nazionale del 2018 nel Paese arabo è stata accolta con notevoli polemiche relative alla questione dei biglietti e dei settori in cui le donne possono accedere e, in generale, alla condizione di discriminazione in cui vivono. Si tratta comunque di minime aperture del nuovo corso nel Paese del Golfo verso le donne, sicuramente anacronistiche rispetto al mondo occidentale. 

La prima finale di Supercoppa all’estero è datata 1993 a Washington (Milan-Torino 1-0) e, negli anni, si è poi spostata in luoghi emergenti per il panorama calcistico, alla ricerca di ingaggi milionari e nuove platee da conquistare per rendere più appetibile il calcio italiano.

Non c'è mai stata continuità cronologica, anche in presenza di accordi commerciali che spesso hanno lasciato alla Lega l'opzione di spalmare su più stagioni il viaggio fuori dall'Italia.

In questa chiave di lettura l'accordo con l'Arabia Saudita, che spera di usare il calcio internazionale anche come vetrina per la politica, è di durata triennale e porterà nelle casse della Lega Serie A e dei club partecipanti un totale di 21 milioni di euro (7 per ciascuna edizione). Mai in passato la Supercoppa italiana era stata tanto ricca.

Lo stadio in cui si giocherà la finale è un fiore all’occhiello dell’Arabia Saudita: il King Abdullah Sport City, noto, infatti, anche come il "Gioiello Splendente". Casa dell’Al-Ittihad e dell’Al-Ahli può ospitare 62.241 spettatori e si tratta del secondo stadio più grande in tutta l'Arabia Saudita, dopo il polifunzionale Stadio Internazionale Re Fahd della capitale Riad.

Costruito in due anni, ha ospitato ad Aprile 2018 l’evento WWE Greatest Royal Rumble. Ecco un time lapse dei lavori di cotruzione. In Italia certe situazioni ce le sogniamo.

Ecco, di seguito, l’elenco dei precedenti della disputa della Supercoppa italiana su territorio estero:

- 21 agosto 1993 (Washington) Milan-Torino 1-0

- 25 agosto 2002 (Tripoli) Juventus-Parma 2-1

- 3 agosto 2003 (New Jersey) Juventus-Milan 5-3 dopo i calci di rigore

- 8 agosto 2009 (Pechino) Lazio-Inter 2-1

- 6 agosto 2011 (Pechino) Milan-Inter 2-1

- 11 agosto 2012 (Pechino) Juventus-Napoli 4-2 dopo i tempi supplementari

- 22 dicembre 2014 (Doha) Napoli-Juventus 6-5 dopo i calci di rigore

- 8 agosto 2015 (Shanghai) Juventus-Lazio 2-0

- 23 dicembre 2016 (Doha) Milan-Juventus 4-3 dopo i calci di rigore

 

Autore: Andrea Longoni

L'importanza del logo per le squadre

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Negli ultimi anni abbiamo assistito a diversi "restyling" riguardanti i loghi delle squadre di club. Infatti, l'importanza di avere un logo riconoscibile ed accattivante, e dunque "commercializzabile", è diventato un ambito a cui le società riservano particolare attenzione. 

Il "ritocco" può toccare minimi dettagli, come il font delle lettere, la tonalità di colore, o semplicemente degli aggiustamenti per togliere quella patina di vecchio. In altri casi, si ribalta il concetto stesso di crest rendendolo un vero e proprio marchio (come nel caso della Juventus).

Abbiamo raccolto i restyling degli ultimi 5 anni, cercando di disporre gli stemmi in base alla riuscita grafica e alla capacità di scostarsi dalla versione precedente.

 

Autore: Andrea Longoni

10 year challenge: speciale Serie A

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La 10 year challenge è la moda del momento, il must virale a cui tutti i personaggi famosi hanno aderito. Anche noi abbiamo deciso di fare la nostra sfida, a colpi di dati statistici. Vi proponiamo una ten year challenge che riguarda le squadre di Serie A, analizzate dal 2009 ad oggi (25 gennaio 2019) in termini di:

  1. Partecipazioni alla Serie A
  2. Trofei italiani (scudetto, Coppa Italia, Supercoppa italiana)
  3. Partecipazioni alla coppe europee (Champions League, Coppa UEFA/Europa League)
  4. Trofei internazionali (Champions League, Coppa UEFA, Europa League).

1. Partecipazioni alla Serie A

La Serie A nel periodo compreso tra la stagione 2008-09 e la stagione 2018-19 si è sempre disputata tra 20 club. La riforma del 2004, che aveva riportato il numero delle squadre della massima serie a venti, è stata soggetto di discussione, ma ha permesso al massimo campionato italiano di adeguarsi allo standard di Liga spagnola e Premier League inglese.

In tutto le squadre che hanno disputato almeno un campionato di Serie A durante il decennio appena trascorso sono 35, di cui 5 squadre (il 14%) per solo una stagione.

Le squadre che si sono affacciate per la prima volta alla massima serie italiana sono state cinque:

  • Sassuolo (6 campionati consecutivi)
  • Crotone (2 campionati consecutivi)
  • Frosinone (2 campionati)
  • Benevento (1 campionato)
  • Carpi (1 campionato).

Le undici stagioni prese in esame in questa statistica sono state disputate da 10 squadre (29%), in ordine alfabetico: ChievoVeronaFiorentinaGenoaInterJuventusLazio, Milan, NapoliRoma e Udinese.

Hanno invece disputato 10 stagioni in Serie A ed hanno vissuto una sola retrocessione con immediata risalita: Atalanta, Bologna, Cagliari e Sampdoria .

Palermo e Torino hanno disputato 8 stagioni in A. I rosanero con ben tre retrocessioni, mentre i granata con solo una retrocessione. Segue il Parma con 7, Catania e Sassuolo con 6, Siena, Verona ed Empoli con 4, Cesena e Lecce con 3Bari, Crotone, Livorno, Pescara, Frosinone e Spal con 2 stagioni.

Fanalino di coda della graduatoria sono Benevento, Brescia, Carpi, Novara e Reggina con una sola presenza, culminata con la retrocessione in cadetteria in tutti i casi.

 

2. Trofei italiani

Probabilmente l'esito di questa analisi è scontato, ma è comunque rilevante notare che le squadre che si sono aggiudicate un trofeo italiano (scudetto, Coppa Italia, Supercoppa italiana) nel periodo compreso tra il 2008 e il 2019 sono soltanto 5:

  • Juventus, 15 titoli (7 scudetti, 4 Coppe Italia, 4 Supercoppe Italiane)
  • Inter, 5 titoli (2 scudetti, 2 Coppe Italia, 1 Supercoppa Italiana) 
  • Lazio, 4 titoli (2 Coppe Italia, 2 Supercoppe Italiane) 
  • Milan, 3 titoli (1 scudetto, 2 Supercoppe Italiane) 
  • Napoli, 3 titoli (2 Coppe Italia, 1 Supercoppa Italiana).

Sorprende il dato riguardante la Roma, che a fronte dei suoi 4 secondi posti in classifica non è mai riuscita ad aggiudicarsi un titolo italiano in questo periodo.

 

3. Partecipazioni alle Coppe Europee

L'esito di questa statistica è piuttosto curioso, poiché da quanto emerso nel decennio in analisi le squadre italiane che hanno disputato almeno una partita in una competizione europea (Champions LeagueCoppa UEFA o Europa League) sono ben 14!

In testa alla classifica delle partecipazioni alle coppe europee ci sono JuventusNapoli con 10 stagioni. I bianconeri hanno saltato l'appuntamento continentale solo durante il 2011-2012, mentre gli azzurri nel 2009-2010.

La squadra con maggior numero di qualificazioni in Champions League è risultata la Juventus con 9, seguita dalla Roma con 7, dal Napoli con 6 e dalle milanesi con 5.

Per quanto riguarda la Coppa UEFA, denominata Europa League dalla stagione 2009-2010, il Napoli con 8 presenze (4 volte retrocesso dalla Champions League), la Lazio con 7 e la Fiorentina con 5 compongono il podio delle squadre più presenti nella seconda competizione europea.

Il grafico riportato in seguito considera le partecipazioni di ciascuna squadra alla Champions League (prima colonna), Coppa UEFA/Europa League (seconda colonna) e numero di stagioni in cui la squadra ha partecipato ad una coppa europea (terza colonna).

 

4. Trofei internazionali

La nota dolente di questa 10 year challenge del calcio italiano è la penuria di successi da parte delle squadre italiane nelle competizioni internazionali. Dal 2009 ad oggi soltanto l'Inter è riuscita ad aggiudicarsi due trofei internazionali (la Champions League 2009-2010 e il Mondiale per Club 2010), a coronare il magico anno 2010: l'anno del Triplete.

 

Non sappiamo ancora chi vincerà i trofei della stagione 2018-2019, ma ci auguriamo che le squadre italiane tornino alla vittoria nelle competizioni continentali. Vittoria che manca da troppi anni.

 

Autore: Gianmaria Borgonovo

U21 State of Mind

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Il CIES Football Observatory ha stilato una graduatoria, anzi una per ogni top campionato europeo, in cui analizza l'impiego dei giocatori Under 21, calcolando la percentuale del minutaggio sul totale giocato.

 

La Serie A, contrariamente a quanto percepito dagli appassionati, non fa una brutta figura: 9,7% e secondo posto dietro solo alla "giovanissima" Bundesliga (14,7%).

 

In particolare, i sempre presenti sono i portieri di Milan e Sampdoria, Donnarumma ed Audero, e il difensore della Fiorentina Milenkovic.

 

Un segnale di inversione di tendenza che fa ben sperare per il futuro e per la Nazionale Italiana, a fronte anche degli impieghi costanti anche del centrocampista Barella del Cagliari e dell'attaccante della Fiorentina, figlio d'arte, Chiesa.

 

Autore: Andrea Longoni


Cesare Pompilio in crisi!

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31 gennaio 2019: la sua Juventus perde 3-0 in Coppa Italia, a Bergamo contro l'Atalanta e Cesare Pompilio si dispera, come mai prima d'ora.

Forse dovremmo scrivere: immagini forti, non adatte ad un pubblico sensibile

Eneas. Una storia di saudade tra Bologna e il Brasile

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Sogno sempre la stessa cosa da anni

Andare in porta con il pallone tra i piedi

dopo aver dribblato anche il portiere.

Ogni tanto mi riesce,

e allora per un po’ faccio sogni diversi,

ma poi torno al vecchio sogno.

Eneas de Camargo

 

La frase con cui si apre il libro Eneas. Una storia di Saudade tra Bologna e il Brasile riassume perfettamente l'essenza della carriera di Eneas, calciatore brasiliano che nel 1980-81 disputò una sfortunata stagione nel Bologna.

Talento, amore per la famiglia e forse fin troppo attaccamento al suo Brasile, terra natia che suscitò in lui il sentimento della saudade.

Proprio a causa di questa situazione di continua nostalgia, la sua esperienza italiana non fu certo brillante, nonostante le ottime parole profuse dai tecnici, non soltanto brasiliani.

Abbiamo intervistato Carlo Alberto Cenacchi, scrittore bolognese che ha raccolto informazioni ed esperienze riguardanti la vita di Eneas e le ha pubblicate nel libro  Eneas. Una storia di Saudade tra Bologna e il Brasile.

Salve Carlo Alberto, nel suo libro “Eneas. Una storia di saudade tra Bologna e il Brasile” narra la vita e l’avventura sfortunata di Eneas De Camargo, giocatore brasiliano talentuoso, ma mai autore di prestazioni di alto livello in Italia. Ci racconti come è nata l’idea di scrivere un libro su questo giocatore e quali fonti ha utilizzato per conoscere meglio le sue vicende.

Sono due i motivi principali che mi hanno convinto a scrivere la biografia di Eneas. In primo luogo ho percepito come a Bologna il giocatore sia ancora ricordato e con enorme affetto. Pur giocando in Italia un solo anno, era riuscito evidentemente a creare un rapporto profondo con la città. Peraltro Bologna era appena stata ferita dalla strage della stazione e forse in quei mesi si attaccò anche maggiormente al calcio per alleviare quel dolore. Tutti quindi ricordano Eneas e chi lo ha conosciuto direttamente è rimasto colpito dalla sua grande umanità.

 

Oltre a questo però, ed è il secondo motivo alla base della scelta di scrivere di lui, è che Eneas in Brasile è tuttora ricordato come uno dei più grandi calciatori degli anni 70 e 80. Una dimensione, quella calcistica, che in Italia non si è potuta ammirare se non a sprazzi e non si è mai potuta comprendere. Per capire invece la considerazione di cui godeva Eneas in Brasile basta ricordare come da giovanissimo in Brasile fosse considerato l'erede naturale di Pelé. Poi la sua carriera è stata piena di alti e bassi, ma il paragone con la perla nera lo ha seguito per tutta la sua carriera.

 

Dagli anni ’80 ad oggi sono arrivati in Europa tanti calciatori brasiliani e parecchi di essi hanno dimostrato oltre alle doti tecniche una costante nostalgia del Brasile per visitare la propria famiglia o per festeggiare il carnevale. Come spiegherebbe il concetto di saudade provato da Eneas ed evolutosi fino ai giorni nostri? Ritiene che la saudade abbia influenzato ed influenzi solo i calciatori brasiliani o che essa si estenda anche a calciatori di altre nazionalità? 

La saudade esisteva allora molto più di ora. In quasi 40 anni il mondo si è rimpicciolito, ci sono giocatori che giocano tre mesi in un continente e i tre mesi successivi in un altro per poi tornare nuovamente indietro. Nel 1980 varcare l'oceano per un brasiliano significava scoprire un mondo non solo ignoto, ma soprattutto diverso. Allora c'era un solo straniero per squadra (ora a volte c'è un solo italiano...), che si trovava ad affrontare metodologie di allenamento diverse, climi diversi, abitudini alimentari diverse. Era ovviamente più facile farsi prendere dallo sconforto e sognare di tornare in patria. Nel calcio attuale non credo che si possa ancora assistere a giocatori vittime della nostalgia, brasiliani o meno.

 

Considerate le caratteristiche tecniche di Eneas e la sua situazione familiare di inizio anni 80’, ritiene che lo stato di continua malinconia suo e di sua moglie abbia fatalmente rovinato le sue ambizioni di carriera in Europa? Pensa che Eneas potrebbe trovare un posto nella Serie A odierna, magari proprio nel Bologna che lo aveva accolto ormai quasi 40 anni fa?

C'è stato un momento in cui Eneas, alle prese con un infortunio muscolare e stretto nella morsa del freddo, avrebbe voluto tornare in Brasile, e così la moglie, lontana dai propri affetti e alle prese con un bambino appena nato. Molti di questi problemi però si risolsero con i primi caldi.

Eneas avrebbe voluto continuare la sua avventura in Italia, ma il Bologna non lo confermò. Purtroppo la dirigenza di allora aveva capacità economiche molto limitate e così invece di rafforzare con qualche innesto una squadra che avrebbe potuto sistemarsi stabilmente in zona Uefa, vendette i pezzi migliori (Dossena, Bachlechner). Fu l'anticamera della tragedia perché l'anno successivo, senza Eneas e Radice, il Bologna cominciò a precipitare dalla A alla C in due stagioni. Eneas non aveva convinto a sufficienza per passare a una big (si parlò di una possibile cessione al Milan neopromosso) e quindi scelse di rientrare in Brasile. Certamente per le sue caratteristiche era un giocatore che anche nel calcio moderno avrebbe potuto trovare spazio. I suoi compagni del Bologna sono unanimi nel ricordare che in allenamento Eneas sovrastava atleticamente tutti gli altri. In un calcio come quello attuale, dove oltre alle doti tecniche sono richieste potenza fisica e dinamismo, il brasiliano avrebbe probabilmente avuto vita facile. 

 

L’epilogo della vita di Eneas è stato tragico, vista la sua morte prematura, ricordata con molto rispetto da parte dei tifosi bolognesi. Chi tra i compagni di squadra di Eneas è rimasto in contatto con la famiglia del calciatore? Lei ha avuto modo di contattare calciatori dei suoi tempi o i suoi compagni di squadra e se sì, qual è il ricordo che essi serbano del giocatore brasiliano?

Purtroppo il ritorno in Brasile di Eneas non fu fortunato. Il Palmeiras lo ingaggiò per vincere qualche titolo, che non arrivò. Continui problemi a un ginocchio ne condizionarono gli ultimi anni di carriera in cui cercò nuovi ingaggi anche in categorie inferiori. Al declino professionale cominciò anche ad affiancarsi quello umano, con problemi di abuso di alcolici e non solo. Eneas seguiva dal Brasile le sorti del Bologna, ma i rapporti con i compagni si interruppero subito dopo la sua partenza. Ora che i mezzi di comunicazione permettono di raggiungere qualsiasi parte del mondo, ho potuto entrare in contatto oltre che con la famiglia del giocatore anche con diversi suoi compagni, sia brasiliani che italiani. Nelle interviste, alcune delle quali riportate nel libro, c'è un fattore comune che colpisce: per tutti Eneas era una persona straordinaria, capace di farsi voler bene come pochi e di straordinaria umanità. 

 

Tra i giocatori della Serie A attuale, o del recente passato italiano, a quale di essi Eneas assomiglia maggiormente?

Pur diverso per caratteristiche fisiche, il giocatore al quale mi sento di accomunarlo è un altro brasiliano, Adriano. Più uomo d'area Adriano, una bacheca senz'altro più ricca, ma anche tanti punti in comune, sopra a tutto il fatto di non essere riusciti a raggiungere e a mantenere quei livelli di risultati che la loro enorme classe gli avrebbe permesso. E un percorso umano molto complicato.

 

Per concludere, una domanda di rito per tutti gli scrittori intervistati su Calcio e Dintorni. Sul blog paragoniamo eventi e calciatori con piatti gourmet e prodotti culinari. Dopo aver analizzato la vita e le caratteristiche tecniche di Eneas, a quale piatto lo paragonerebbe?

Eneas era un gran mangiatore, anche piuttosto sregolato. Ovviamente a Bologna trovò terreno fertile e la sua passione per i tortellini è diventata celebre. Però quando invitava i compagni di squadra a casa sua a mangiare gli offriva il suo piatto preferito, la feijoada. Un piatto povero, che però per lui era il massimo. Racconta Adelmo Paris, compagno di Eneas al Bologna, che in occasione della trasferta a Firenze per la gara con i viola, Eneas prima della partita mangiò come un turista in vacanza, salvo poi segnare un gol dopo appena cinque minuti. Quindi cercando di mettere a fattor comune questi ricordi (i fagioli, la Toscana, le abbuffate) direi un bel piatto di fagioli all'uccelletto. Non un piatto ricco, ma di enorme bontà.

 

Autore: Gianmaria Borgonovo

Football hooliganism

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Nel secondo dopoguerra il gioco del calcio rappresenta per i figli della working class britannica il pretesto per l'esplosione di un sentimento di frustrazione e di un generale malcontento nei confronti della società. Il football hooliganism si afferma cosi in nome di una volontà di esprimere un rifiuto all'imposizione di un modello-calcio che si sposta verso la professionalizzazione, l'imborghesimento e la spettacolarizzazione.

 

Con questa introduzione si apre il libro Football holiganism di John Clarke, tradotto efficacemente in italiano dall'amico Luca Benvenga.

Violenza, confronto sociale e Inghilterra post-seconda Guerra Mondiale sono i temi principali trattati mirabilmente in questo libro.

Abbiamo intervistato Luca Benvenga, che ha risposto alle nostre domande in merito al tanto temuto fenomeno degli hooligan inglesi e mondiali.

Salve Luca, il libro “Football hooliganism. Calcio e violenza operaia” tratta gli aspetti sociali legati al fenomeno dell’hooliganism. Il movimento hooligan in Inghilterra e quello ultras in Italia sono completamente diversi. È vero che alcuni gruppi italiani si definiscono casual ed all'inglese, ma forse la più grande differenza è la politica, centrale da noi specie negli anni 70’-80’. Che ruolo ha la politica nelle curve d’oltremanica?

A differenza del modello ultrà italiano, che a partire dalla fine degli anni Sessanta ha pagato il suo prezzo nei confronti della sfera politica, nei paesi anglosassoni il fenomeno hooligan nasce come estensione dei valori under class, coniugando ad un approccio “duro”, tipico dei lavoratori manuali non specializzati che iniziavano ad essere esclusi dal processo produttivo che si  avviava verso una dolorosa “maturazione”, un'esasperata territorialità e forte coesione del gruppo, elementi determinanti e fondanti le regole di vita dei giovani Skinhead dell'East End londinese, che vedevano nell'occupazione dei campi di calcio un senso di attaccamento alle proprie origini, reclamando una identità minacciata che andava a tutti  i costi recuperata. La  politicizzazione oltremanica ha avuto dei percorsi meno lineari rispetto alla storia italiana, diciamo che ha conosciuto una certa radicalità nel medio-periodo, coinciso il proselitismo del neonato National Front nei quartieri periferici, che contribuì all'affermazione di un’intellighenzia in cui l’inter-razzialità, modello imperante degli Skinhead del 1969, viene sostituita (non da tutti) dalla monoetnicità ed esaltazione dell’identità bianca e inglese, da intendere come una perpetuazione e conservazione delle radici culturali di fronte alla disomogenizzazione degli stili di vita, verso cui inesorabilmente stava marciando il resto d'Europa e la nazione inglese, e questo si tradusse nell'accentuazione di frustrazioni xenofobe nelle terrace, cui fecero subito eco delle determinazioni solidaristiche che cementarono una coesione inter-etnica.

 

Il movimento hooligan è stato debellato non solo da misure thatcheriane e durissimi life-bans, ma si è anche calmato da solo, diciamo. Alla fine degli anni 80’ con la famosa Summer of Love, molti uligani iniziano a preferire l’ecstasy ai pestaggi. Quanto secondo Lei hanno impattato i vari fattori, in che diversa misura?

Dunque, oggi qualcuno parlerebbe di narco-capitalismo, ovvero la “medicalizzazione” di soggetti meno acquiescenti attraverso l'uso (anche) di sostanze psicotrope, inducendoli a rientrare nella “normalità” o quantomeno a negare loro qualunque forma di legittimità sociale. Ci sarebbe da parlare tanto sul ruolo delle pillole anoressizzanti a base di anfetamina in uso specialmente tra i giovani Mods negli anni Sessanta, funzionali ad accelerare le frequenze emotive e consentire loro di uscire il venerdì e ritornare negli uffici il lunedì mattina, o sulla frantumazione di una subcultura (la parte dura dei Mods, gli Hard Mods, costituì lo zoccolo duro degli Skin), e questo ci indica come le culture giovanili di matrice operaia non si auto-rappresentano come un monolite, ma le risposte  e le reazioni  al sistema hanno fatto seguito ad una dimensione volontarista, non si spiegherebbero altrimenti i vari modelli, ognuno con  le sue peculiarità e spesso in contrapposizione tra loro.

Di sicuro le misure repressive della Thatcher hanno prodotto un risultato, quello di indebolire e isolare il movimento hooligan: la frammentazione di un fenomeno culturale d'opposizione è la figura retorica che hanno assunto le elites del neoliberismo capitalista in crisi di egemonia, scriveva Stuart Hall. Tuttavia, ottenuto il consenso popolare alle reazioni autoritarie volte a demonizzare e reprimere i gruppi meno remissivi, i boot boys si sono riorganizzati, hanno abbandonato il “vecchio” modello iconografico, vulnerabile a forme di reazione sociale stigmatizzanti, ed hanno iniziato a vestire casual, invalidando il consuetudinario rapporto tra ciò che si vuole mostrare e quello che realmente si intende esprimere. La “Lady di ferro” aveva trovato delle risposte all'hooliganismo, ma gli hooligan cambiarono le domande. Questo adattamento, in nome di una conservazione delle norme della sfera comportamentale e degli ideali, è comune a tutte le “bande” di strada.

 

Vede un possibile ritorno in grande stile del movimento hooligan? Per esempio con le nuove generazioni di immigrati in Europa?

Più che ritorno in grande stile degli hooligan, io mi concentrerei soprattutto su come vasti settori di giovani  e meno giovani rilanciano nelle terrace, ma anche nelle curve in lato sensu, una pulsione aggressiva che non è da intendere come valvola di sfogo, bensì come rivendicazione di un agire collettivo in una società che prescrive la ricetta della “riuscita” attraverso il merito individuale. L'aggressività de-controllata negli stadi ha un suo valore assertivo: è una forma di auto-identificazione e questi aspetti implicano di sicuro un'analisi organica e complessiva della realtà sociale, sempre meno solidale e non in grado di fornire dei “ripari” al soggetto, il quale si crea uno status e mobilita una energia positiva sfidando la conformità e i meccanismi di deterrenza.

 

Come mai il fenomeno dell’hooliganism sta spopolando in Sudamerica, come testimoniato dalla recente finale di Copa Libertadores?

Da sempre nei paesi sudamericani gli hinchas hanno avuto un approccio “accalorato” alle partite di calcio, specie nelle rivalità cittadine per eccellenza, in cui il campanilismo, il senso di appartenenza e il difensivismo collettivista sono esasperati. Inoltre, non dimentichiamo come non sia da sottostimare la consapevolezza mediatica del gesto violento che enfatizza “l'estremismo partecipativo” degli attori, ma evidenzia anche come la “creazione di notizie” si basi sul sensazionalismo e sulla deviantizzazione di gruppi sociali (spesso a scopo politico) i cui comportamenti non sono compatibili con l'ordine sociale, su tutti quelli dei tifosi violenti, considerati come una vera e propria sfida nei confronti delle autorità e che vanno arginati, ostruendo la mobilità negli impianti (tornelli, riconfigurazione degli spazi negli stadi etc) e imbrigliandoli nei tentacoli dei talk show, in cui non si problematizza il fenomeno (come dovrebbe essere) ma  ci si limita solo a descriverlo nell'incapacità intellettuale di comprenderlo e spiegarlo. E questo reputo sia uno dei grandi limiti della contemporaneità.

 

Nel calcio esistono casi di tifoserie in cui si va oltre il “senso di appartenenza”, creando un legame profondo che supera i tipici concetti di città, paese o quartiere. Classici esempi sono il St. Pauli di Amburgo e il Rayo Vallecano di Madrid: tifoserie dichiaratamente antifasciste e contro ogni tipo di discriminazione e che vivono una straordinarietà sociale con iniziative solidali e di volontariato. A nostro modo di vedere, sono esempi virtuosi nel mondo ultras. È a conoscenza di ulteriori casi nel mondo di questo fenomeno?

Gli esempi citati sono molto rappresentativi e costituiscono delle contromisure ai decennali processi di etichettamento che l'universo ultras internazionale si porta appresso. Realtà più o meno grandi con una tradizione più o meno lunga fanno da battistrada, utili a ripensare un nuovo modello calcio basato su valori solidali e inclusivi, veri e propri laboratori sociali per tutte quelle soggettività che si riconoscono nell'antifascismo e considerano l'ibridazione razziale come fondamento delle società contemporanee. Al riguardo, rivolgerei l'attenzione anche a campionati e contesti non di blasone ma non per questo meno importanti, mi riferisco al calcio popolare, con squadre che militano nelle serie dilettantistiche che si sorreggono sull'azionariato popolare e l'orizzontalità delle pratiche, in cui convergono biografie individuali tra loro distanti e in cui si mescola l'attivismo e la militanza politica con prassi associazioniste, e che meriterebbero maggior respiro per via della loro forza coesiva e del messaggio di rispetto e integrazione che veicolano, oltre che di opposizione allo star system. A mio avviso, queste buone pratiche sono a fondamento di una resistenza e resilienza gruppale in una società che, ahimè,  fidelizza soggetti economicamente e culturalmente meno protetti per assicurarsi la costante della guerra sociale come strumento a tutela di privilegi di pochi, e che “terrorizza” la popolazione “istruita e con risorse” per vendere abbonamenti pay tv nel caso del calcio, che John Clarke definisce nel libro, a ragione, spettacolarizzato, commercializzato e imborghesito (inteso come “nobilitato”).

 

Siamo soliti chiedere a tutti gli scrittori intervistati su Calcio e Dintorni un paragone culinario. A quale piatto paragonerebbe il movimento hooligans inglese descritto in hooliganism? A quale invece paragonerebbe il fenomeno degli ultras italiani, tristemente protagonisti delle vicende extra-stadio?  

Io voglio paragonare il movimento hooligan ad un fish and chips, e gli ultras ad una carbonara.

 

Autori: Riccardo VincelliGianmaria Borgonovo

Vieni allo stadio per Genoa-Juventus con Visitpass!

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Sabato 30 marzo, alle 20.30, Calcio e Dintorni ti offre la possibilità di vedere Sampdoria - Milan, comprando i biglietti direttamente da Visitpass. E se vuoi goderti la partita nel più totale relax, puoi persino acquistare biglietti in tribuna con accesso all'area Hospitality!

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David Villa: il Globetrotter del gol

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Dallo scorso mese di dicembre la J. League, il massimo campionato giapponese, si è arricchita di un campione spagnolo: l’attaccante David Villa, trasferitosi al Vissel Kobe, squadra in cui già militano gli ex blaugrana Andrés Iniesta e Sergi Samper e il tedesco Lukas Podolski.

A oggi, nella sua nuova avventura, Villa ha giocato 6 partite condite da 3 marcature.

Si tratta di gol storici in quanto i primi realizzati in Asia nella sua carriera, che lo portano ad aver “timbrato il cartellino” in tutti i continenti.

Ripercorrendo le tappe della carriera del 38enne centravanti spagnolo, infatti, si può notare come abbia suddiviso geograficamente le sue marcature:

- in Europa, un totale di 273 reti suddivise con le maglie di Sporting Gijón, Real Saragozza, Valencia, Barcellona e Atletico Madrid, con cui ha contribuito a vincere, tra le altre competizioni, tre Liga, una Champions League e un Mondiale per Club

- in Oceania, ha segnato 2 reti in 4 partite disputate nella A-League con il Melbourne City;

- in Africa, in occasione dei Mondiali 2010, ha totalizzato 5 reti, risultando decisivo, in particolare, negli ottavi e nei quarti di finale, rispettivamente contro Portogallo e Paraguay, e vincendo la classifica cannonieri ex aequo con Thomas Müller, Diego Forlán e Wesley Sneijder. Oltre, ovviamente, ad aver alzato nel cielo di Johannesburg la Coppa del Mondo con le Furie Rosse;

- nel Nuovo Continente, il centravanti asturiano ha differenziato le reti tra America del Nord e America Latina. In MLS, con la maglia dei New York City, ha totalizzato 80 reti in 125 presenze, mentre nella Coppa del Mondo di Brasile 2014, ha segnato in Spagna – Australia, terza partita del girone di eliminatorio.

 

Mancherebbe l’Antartide ma, ad oggi, non esiste alcun campionato nell’estremo Nord della Terra. Tuttavia, in caso venga organizzato, siamo sicuri che David Villa potrebbe comunque prenderlo in considerazione per consolidare il suo personalissimo record.

 

Sotto, il video della prima rete realizzata da Villa in Giappone contro il Sagan Tosu, squadra il cui pezzo da 90 è, ironia della sorte, un altro spagnolo e compagno di reparto in Nazionale, El Niño Fernando Torres.

 

Autore: Andrea Longoni

Vieni allo stadio per Genoa - Torino con Visitpass!

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La Serie A entra nel vivo e il modo più emozionante per gustarla è andare allo stadio nei posti migliori!

Sabato 20 Aprile, alle 15:00, Calcio e Dintorni ti offre la possibilità di assistere allo Stadio FerrarisGenoa - Torino, comprando i biglietti direttamente da Visitpass

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  5. comunica i dati del referente per la prenotazione;
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La maglia bianca del Brasile per la Copa America 2019

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Per chi come noi è appassionato di maglie, questa notizia non poteva di certo passare inosservata. 
Nella notte europea di martedì è stata presentata da Nike la nuova divisa della Seleçao per la Copa America 2019
La particolarità è il ritorno del bianco dopo 69 anni dalla sconfitta del Maracanazo contro l’Uruguay nella finale di Coppa del Mondo 1950, come tonalità principale della maglia.
Da quel momento, infatti, il bianco era stato abolito dalle divise della Nazionale per questioni puramente scaramantiche
Quale miglior occasione del centenario della prima Copa America ospitata in Brasile, nel 1919 appunto, per sfatare il tabù?
In quella edizione, inoltre, la coppa è stata vinta proprio dai verdeoro grazie ad un gol di Arthur Friedenreich, in uno spareggio contro l’Uruguay. 

 

Fu il primo successo per il Brasile che sarà celebrato nell'edizione che prenderà il via il prossimo 14 giugno.
Autore: Andrea Longoni

Il Monza passa a Lotto

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Il Monza, club che milita nel Girone B di Serie C, e balzato a settembre scorso agli onori delle cronache nazionali per il cambio di proprietà con l’arrivo della coppia Berlusconi e Galliani, ha comunicato nella sala stampa del leggendario Autodromo cittadino il raggiungimento di un importante accordo commerciale con Lotto Sport Italia, che diventerà, quindi, sponsor tecnico a partire dalla prossima stagione. Il contratto, di durata quadriennale, avrà inizio il prossimo 1 luglio. Dura quindi un solo anno la partnership tra la società brianzola e l’italiana Boxeur Des Rues.

La divisa home, disegnata dagli stilisti dell’azienda di Trevignano, è molto essenziale e dalle linee pulite, caratterizzata dal rosso come tinta principale e dall’iconica banda bianca verticale sulla sinistra dove, al suo interno, trova posto lo stemma societario. Esattamente l’opposto la away, bianca con banda rossa. L’unica differenza è il colletto: a polo nella prima e a girocollo nella seconda.

 

La location della presentazione non è casuale, ma è stata un’occasione per suggellare la sinergia con l’autodromo di Monza che, in qualità di City Partner, sarà presente con il proprio logo sul retro del colletto come segno distintivo della maglia.

Ecco il commento dell’AD Adriano Galliani: “È con grande gioia che ci apprestiamo a vestire un prestigioso marchio sportivo come Lotto, partner che ci accompagnerà nel nostro prestigioso progetto. Lotto nel corso della sua storia aziendale ha vestito grandi Club come grandi campioni del calcio e di altri sport. Voglio ringraziare per questo ‘matrimonio sportivo’, l’amico Andrea Tomat, presidente di Lotto che ritrovo dopo anni. Mi auguro che insieme si possano rivivere esaltanti emozioni sportive. Ringrazio il presidente dell’autodromo Giuseppe Redaelli e il Direttore Generale Pietro Benvenuti per aver accettato di accompagnarci nel nostro progetto diventando City Partner. Siamo orgogliosi di poter condividere questo nostro percorso di crescita con un brand che, per mezzo della sua grande storia, ha reso Monza conosciuta in tutto il mondo.”

 

Pietro Benvenuti, Direttore Generale del Monza Eni Circuit, gli fa eco: “Il Monza ha un progetto estremamente ambizioso e si sta impegnando con ogni risorsa a sua disposizione per poterlo realizzare. Ci riconosciamo molto in questa visione che è anche alla base del nostro lavoro per continuare a migliorare anno dopo anno l’Autodromo, partendo dalla sua gloriosa storia. Quando si è concretizzata la possibilità di una collaborazione tra il circuito e la società sportiva, abbiamo quindi accettato con entusiasmo di diventare City Partner”.

Nel corso dell’evento è stato confermato che nella prossima stagione la società biancorossa tornerà ad avere la denominazione AC Monza che, come anticipato da Adriano Galliani al suo insediamento, tornerà a campeggiare sulle divise della prossima stagione.

Non si tratta di una prima volta per la coppia Berlusconi e Galliani con l’azienda trevigiana. Lotto, infatti, è stata sponsor tecnico del Milan berlusconiano tra il 1993 e il 1998, vincendo in 5 anni di collaborazione due Scudetti, due Supercoppe Italiane, una Supercoppa Europea e, soprattutto, la Champions League contro il Barcellona di Cruijff.

Siamo sicuri che per i tifosi monzesi basterebbe anche solo tornare a respirare l’aria del calcio che conta, levandosi dal pantano della terza serie, e mandare in pensione il coro “E non andremo mai in Serie A”. E comunque vada, sarà romantico!!!

 

Autore: Andrea Longoni

C'era una volta lo stadio

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E’ di qualche settimana fa la querelle tra il Comune di Milano e le due maggiori società calcistiche cittadine, Milan ed Inter, circa la possibilità della costruzione di un nuovo stadio, sempre in condivisione, nella zona dei parcheggi adiacenti il Meazza e il conseguente abbattimento di quest’ultimo. L’opinione pubblica si è divisa subito in favorevoli e contrari al cambiamento, portando le proprie ragioni. A nostro modo di vedere la vicenda di San Siro è particolare nel panorama calcistico mondiale. E’ indubbiamente uno dei simboli del capoluogo lombardo, un impianto iconico e unico caso, insieme a Roma, di struttura in cui coabitano due squadre professionistiche di massimo livello. La Scala del Calcio è in Italia, insieme all’Olimpico di Roma di proprietà del Coni, e in seguito agli ultimi recenti lavori di ammodernamento, uno stadio “5 stelle UEFA”, dove, neanche tre anni fa, si è giocata la finale di Champions League tra Real e Atletico Madrid. Un impianto probabilmente ora troppo grande per Milan ed Inter che, vuoi anche per il momento storico poco favorevole a livello sportivo, raggiunge il sold out esclusivamente nelle partite di cartello. Da qui l’idea da parte dei board delle due società meneghine di costruire uno stadio ex novo, meno capiente e che asseconda le esigenze commerciali dei club, in quanto più economico rispetto ad ammodernarne uno già esistente. Il dibattito è tuttora aperto. A questo proposito, proponiamo di seguito le vicende di cinque stadi che hanno fatto la storia del calcio e che adesso sono stati rimpiazzati da nuove astronavi con lo sponsor che campeggia fiero all’entrata, o da architetture sportive formato happy meal a uso e consumo di un intrattenimento da famiglie e tifosi da biblioteca.

Il calcio cambia, lo showbusiness va avanti e il “contenitore” stadio si modifica a sua volta. Ma ci sono storie nate in stadi lontani nel tempo, stadi che sono diventati delle vere e proprie icone da adorare.

Il primo è una ferita ancora aperta per gli appassionati, soprattutto perché l’investimento non è stato convertito in vittorie e trofei di spessore in bacheca, ma ha contribuito a trasformare quella che era una potenza fino ai primi anni del millennio in una squadra da copertina patinata con un bello stadio in cui giocare. Stiamo parlando ovviamente dell’Arsenal. Oggi l’Arsenal Stadium, per tutti Highbury, è così che si chiama il quartiere dove sorgeva l’impianto, non c’è più, e con esso se ne va una storia durata dal 1913 al 2006. Quasi cent’anni di grande calcio. La “HOF“, ovvero la Home of Football dei leoni biancorossi ci ha lasciato per fare spazio ad un nuovo stadio da £ 390 milioni: l’Emirates Stadium, un progetto faraonico da 60mila spettatori, con ristoranti di tutti i tipi, negozi di merchandising, bar e lussuose abitazioni, sedili più comodi, tribune coperte e posti macchina. È il fiore all’occhiello del panorama calcistico londinese, insieme al neonato New White Hart Lane, casa del Tottenham.

È quindi con un sentimento misto tra dolore e gioia che i fan si sono abituati alla sua assenza. Highbury si trovava nel distretto di Islington e aveva una capienza di più di 38mila posti. Era considerato il salotto del calcio inglese per la sua facciata, che richiamava lo stile decò, sulla quale si trovava l’orologio Clock End. L’ultima partita giocata ad Highbury è stata Arsenal - Wigan 4 - 2 del 7 maggio 2006, da allora è stato riconvertito ad edilizia residenziale. Da Highbury Stadium a Highbury Square. Le grandi vittorie dell’Arsenal sono nate sul campo di Highbury. Come detto, dal 2006 ad oggi i tifosi hanno potuto festeggiare solamente due Coppe d’Inghilterra. Sembrano così lontani gli anni dei successi con Henry, Viera, Ljungberg, Bergkamp e Wenger

Oggi è un complesso residenziale da 650 appartamenti e attici di lusso, c’è il portiere 24 ore su 24, il centro fitness e il parcheggio sotterraneo. Tutto è stato realizzato seguendo un principio: modificare il meno possibile la struttura originaria. Il campo da gioco è stato diviso in tanti piccoli giardini condominiali. Il rettangolo verde è rimasto al centro del progetto, perché tutti gli appartamenti hanno almeno una vetrata che guarda i giardini. Ad Highbury molto è stato fatto per conservare la memoria. Le facciate delle storiche tribune East Stand e West Stand  in art déco  sono state conservate così com’erano. Gli stanzini delle biglietterie sono stati tirati a lucido e restituiti a nuova vita, e anche il tunnel di ingresso al campo è rimasto intatto. Ma tutto questo contribuirà solo ad arricchire la storia.  L’Arsenal Football Club ora è, e resterà sempre, una squadra con il cuore nel nord di Londra, fondata nel 1886 dagli operai dell’arsenale militare di Woolwich.

Il secondo stadio è quello di una squadra spagnola che, con debite proporzioni, può essere paragonato al Piacenza dei primi anni ’90, in cui la globalizzazione e l’esterofilia iniziavano a prender piede anche nel calcio, ovvero a quello che è passato alla storia come il Piacenza degli italiani. Qui si parla del club basco per eccellenza, l’Athletic Bilbao, e del suo San Mamés. Squadra dalle origini antichissime, l’Athletic fu fondato nel 1898. Il primo trofeo nel 1902, sconfiggendo il Barcellona nella Coppa Nazionale. È il 1910, invece, che sancisce i colori dell’Athletic: il rojiblanco. Il catino infernale dove l’Athletic ha dettato legge per quasi un secolo, venne chiamato così perché sorgeva su un terreno dove in precedenza era situata una chiesa dedicata a Mamete di Cesarea, San Mamés appunto. Per tutti gli spagnoli, questo stadio è La Catedral. La vera Cattedrale di Bilbao. Ecco cosa dice Santiago Segurola, famoso giornalista sportivo spagnolo, a proposito dello stadio: “La chiesa era dedicata a San Mamés, il martire che sapeva domare i leoni. Lo stadio ne ha preso in prestito il nome. Da allora è chiamato San Mamés, sebbene tra gli appassionati sia anche conosciuto come La Catedral. L’appellativo non è ironico. Non si deve alle sue umili origini, né alla vicinanza con la piccola chiesa. È diventato La Cattedrale perché non c’è stato stadio più rispettato in tutta la Spagna e perché, al tempo stesso, nessuno stadio è stato più rispettoso delle tradizioni del calcio”. Passione calcistica che diventa quasi religione. Una struttura da idolatrare quasi quanto la squadra stessa, il San Mamés non può essere considerato alla stregua di tutti gli altri. Giocare lì dentro era come entrare in chiesa, come mettere piede in una vera e propria cattedrale. Una Via Crucis per chi passava di lì.

Luis Fernandez, calciatore francese compagno di Platini nella nazionale degli anni ottanta e allenatore dell’Athletic dal ’96 al 2000, ha affermato che “Bilbao senza il San Mamés sarebbe come Parigi senza la Torre Eiffel”. Rende perfettamente l’idea.

Come tutte le storie romantiche, il lieto fine non sempre è previsto e dal 2013 il vecchio San Mamés non c’è più. È stato demolito per fare spazio ad un nuovo stadio costruito proprio a fianco delle ceneri del “padre”, prende il suo stesso nome ma viene identificato come San Mamés Barria. Costo dell’operazione € 173 milioni. Anche a Bilbao si sono dovuti fare due conti e mettere da parte i sentimenti. Si sono lanciati nel futuro con uno stadio a 5 stelle Uefa, ma lo spirito è rimasto quello di una volta. A chiosa ancora Segurola che nell’elogio del San Mamés scrive questa sorta di epitaffio: “Non è stato di certo lo stadio più bello, ma certamente quello con più carattere. È stato ampliato sette volte, acquisendo forme strane e irregolari, che lo hanno reso ancor meno bello ma più umano. Lo stadio ha servito egregiamente l’Athletic e i suoi tifosi. Ha visto epoche d’oro e momenti drammatici. Nato modestamente, muore come La Catedral del calcio”.

Il terzo è impianto è nei Paesi Bassi che, oltre ad essere la patria dei tulipani, degli zoccoli in legno e dei polder, ha visto la nascita del calcio totale. Ad Amsterdam, infatti, prima della Johan Crujif Arena, la casa dei lancieri dell’Ajax era il De Meer dove appunto Cruijff ha dettato legge per anni. Inaugurato il 9 dicembre 1934 con la gara tra Ajax e lo Stade Français, l’impianto poteva contenere 22mila spettatori ma per via delle norme di sicurezza scese a 19mila. Troppo poco per giocare in Coppa Campioni. Per questo motivo, Johan e la sua corazzata dovevano  disputare le gare europee all’Olympisch Stadion. E tre Coppe Campioni furono.

L’ultimo incontro al De Meer fu il 28 aprile 1996: Ajax - Willem II. Finì 5-1 per i lancieri che si aggiudicarono così il 26° scudetto, il terzo consecutivo della gestione Van Gaal. Nella zona sono stati costruiti dei ponti intitolati agli ex calciatori dell’Ajax degli anni’70. Sei strade invece sono state intitolate agli stadi in cui il club disputò alcune partite internazionali come Anfield, Bernabéu, Delle Alpi e Wembley. È lì che è nato il grande mito dell’Ajax e dell’Olanda. Cruijff & Co. sono tutti figli del De Meer.

Nel 1996 è stato raso al suolo per fare spazio a residenze e ad un parco.

Per il quarto stadio siamo in Germania, in Baviera per la precisione. L’Olympiastadion, a differenza degli altri stadi sopracitati, non è stato demolito, anche se possiamo certamente qualificarlo come abbandonato dal grande calcio, specie pensando a quello che in passato è riuscito ad ospitare. Ma solo dal 2005, prima dell’arrivo dell’Allianz Arena, costato € 340 milioni. Protagonista in questo monumento del calcio è stato senza dubbio Franz Beckenbauer, il Kaiser. Con la maglia del Bayern annovera 5 campionati nazionali tedeschi, 3 Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Coppa delle Coppe e 4 Coppe di Germania. È con la maglia della nazionale, però, che fa lo sgarbo più grande al suo contraltare Cruijff, vincendo la Coppa del Mondo nel 1974 proprio contro l’Olanda e proprio nella sua casa. L’Olympiastadion è ancora protagonista con la sua struttura a cielo semi-aperto e la sua pista d’atletica che avvolge il terreno da gioco, oggi in erba sintetica. Progettato dall’architetto tedesco Günther Benisch, fu costruito tra il 1968 e il 1971 per essere pronto in occasione delle Olimpiadi del 1972 nella capitale bavarese. Anche quella volta i tedeschi si dimostrarono tecnologicamente lungimiranti. L’impianto presentava alcune soluzioni tecniche innovative per l’epoca: non essendo interamente coperto dal tetto, lo stadio, veniva esposto agli agenti atmosferici e, per far fronte soprattutto al clima rigido invernale, nel sottosuolo del terreno di gioco fu impiantata una rete di 18 chilometri di tubi in materiale sintetico percorsi da acqua calda per mantenere il prato sgombro da neve e ghiaccio. In Italia, quasi 50 anni dopo, siamo ancora con badili e sacchi di sale per gli spalti. Ma questo è un altro paio di maniche. 

L’ultima tappa di questo viaggio per l’Europa ci porta in Italia, nell’icona del calcio granata, il Filadelfia. Simbolo di una storia, di una tragedia, quella di Superga, che si è portata via con sé un’intera generazione di campioni guidati dall’incommensurabile classe di Valentino Mazzola. È lo stadio più leggendario che l’Italia ha conosciuto. E solo un disastro aereo come quello capitato ai giovani granata poteva scalfire i contorni di una leggenda ormai senza tempo. Lo stadio venne ideato dal conte Enrico Marone di Cinzano, a quei tempi presidente granata. L’inaugurazione dell’impianto avvenne il 17 ottobre 1926 e, per l’occasione, si svolse una partita amichevole tra il Torino e la Fortitudo Roma, alla presenza del principe ereditario Umberto II, della principessa Maria Adelaide e di un pubblico di 15mila spettatori. Questo stadio ospitò le partite casalinghe del Torino fino al termine della stagione 1962-1963. Qui i granata vinsero sei dei loro sette Scudetti. In questa struttura il Torino è rimasto imbattuto per sei anni, 100 gare consecutive, dal 17 gennaio 1943 alla tragedia di Superga. Durante la guerra subì dei forti bombardamenti e, nonostante la copertura della tribuna fosse rimasta intatta, le travi metalliche vennero asportate per rifornire probabilmente l’industria bellica, e sostituite con altre in legno.

Dopo diversi tentativi di riqualificazione, mai andati a buon fine, si deve ad Urbano Cairo, attuale presidente granata, la costruzione sulle ceneri del “Fila” (a parte due porzioni degli spalti tutelate dalla sovrintendenza e integrate nel progetto di recupero) della Casa del Toro, il nuovo centro sportivo, in cui si allenano la Prima Squadra e la Primavera, dove si trova la sede sociale, con il museo del club, la sede della Fondazione Stadio Filadelfia e una foresteria per le giovani promesse granata del settore giovanile. La capienza complessiva dell’impianto sarà di 4mila posti, di cui 2mila nella tribuna coperta, ricostruita molto similmente a quella originaria, con l’obiettivo di ridare definitivamente alla città, ai tifosi e tutti gli appassionati di calcio e non, lo Stadio che non solo ha ospitato le gesta del Grande Torino, ma che rappresenta l’unica e vera casa granata.

Il Toro non è più ai vertici delle classifiche da tanto tempo, ma la maglia granata e il suo stadio, il Filadelfia, ci fanno tornare sempre con piacere indietro nel tempo.

 

Autore: Andrea Longoni

Facciamo squadra per Genova

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Genoa e Sampdoria stanno ancora lottando per raggiungere i rispettivi obiettivi stagionali: la salvezza per i rossoblu e un piazzamento in Europa League per i blucerchiati. Dopodiché potranno concentrarsi per un evento speciale. Infatti, nella Giornata della Bandiera di Genova (che si tiene il 23 Aprile) si è tenuta una conferenza stampa nel Palazzo della Regione per presentare “Facciamo squadra per Genova”, una partita benefica che vede le due società genovesi unire le forze per raccogliere fondi da destinare alle aziende che hanno subìto danni dal crollo del Ponte Morandi dello scorso Agosto. Per una buona causa, quindi, Genoa e Sampdoria  saranno sotto la stessa bandiera.

La partita si terrà Lunedì 27 maggio allo Stadio Luigi Ferraris e vedrà confrontarsi  il Team “Genova”, composto da una selezione degli attuali giocatori di Genoa e Sampdoria scelti congiuntamente dai club, contro il Team “La Superba” (appellativo del capoluogo ligure coniato da Francesco Petrarca nel 1358) formato da una selezione di ex giocatori e campioni ancora in attività che hanno vestito le maglie dei due club cittadini.

In occasione della conferenza stampa è stato svelato il logo per promuovere l’evento, mentre l’ex giocatore blucerchiato Angelo Palombo e il capitano del Grifone Domenico Criscito hanno presentato le maglie della partita. Pezzi da collezione.

 

Autore: Andrea Longoni

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